La democrazia delle minoranze rumorose

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“Per l’Albatros Dino Cofrancesco illustra come con tutte queste minoranze che si propongono come maggioranze semplicemente perché gridano di più in piazza o sul web la democrazia anziché essere al servizio della libertà e dei diritti civili è diventata il fine che ha retrocesso la libertà a mezzo”.

In un denso e ragionato articolo apparso il 19 aprile sul ‘Foglio’, Il voto degli urlatori di piazza. Il metodo dell’insulto e la colpevole finzione di chiamarlo democrazia, Giuliano Ferrara ha denunciato «l’imbarbarimento della vita politica» che scambia «beceri urlatori per ‘cittadini della società civile’». I «gruppi di esagitati» «hanno a disposizione la rete e vengono vezzeggiati, con un eccesso di irresponsabilità, dalle emittenti televisive che ne immortalano le gesta, magari definendoli come ‘la base del Partito democratico’ o addirittura i veri rappresentanti del ‘popolo italiano’». Chi in questi giorni abbia seguito i servizi da Montecitorio sui vari canali televisivi—e soprattutto su RAI 24—si è sentito umiliato, come cittadino e come uomo abituato a pensare con la propria testa, nel riascoltare la vecchia, immarcescibile, contrapposizione del paese reale al paese legale e la pretesa sordità del secondo ai valori profondi del primo. Bastano centomila fax a favore di Emma Bonino for President per far dire ai giornalisti della RAI o de La7 che il popolo italiano non condivide le scelte della sua classe dirigente e chiede volti nuovi (anche se sono quelli di una professionista politica sulla scena da trentasette anni…). Una manifestazione davanti a Montecitorio di SEL, dei grillini, di militanti del PD, che minacciano di bruciare le tessere, è sufficiente per fare di Stefano Rodotà («il nuovo che avanza»: classe 1933, in politica almeno dal 1976!) l’espressione di un’opinione pubblica illuminata e responsabile che vuole ‘voltar pagina’ed essere governata da quel partito delle persone oneste oggetto della feroce ironia di Benedetto Croce.
Qualche giorno prima, Stenio Solinas, sul ‘Giornale’,aveva concluso una denuncia analoga, L’assurda democrazia del primo che passa, facendo rilevare come l’ossessione per il controllo e la trasparenza aggiungano alla protesta populista «un retrogusto vagamente totalitario, l’idea di un esercito telematico di guardiani-guardoni della virtù pronto alla denuncia-gogna del reprobo, il suo esasperato atteggiamento moralistico, la retorica demo-qualunquista fatta di presa diretta con la ‘gente’, di collegamenti con le piazze, di mitologie sul comune cittadino, di appelli, di marce, di firme, di petizioni…».
Ferrara e Solinas hanno messo il dito sulla piaga ma il loro discorso, fermo al piano fenomenico, ha lasciato in ombra le cause che spiegano la cachistocrazia ovvero la degenerazione della democrazia in governo dei peggiori o della feccia .Quelle cause, a mio avviso, vanno ricercate anche–e soprattutto–in una cultura politica che, lungi dall’ubbriacarsene, del vino liberaldemocratico non ha bevuto neppure un sorso. Nella Democrazia in America (1835), Tocqueville aveva già capito tutto. Per i democratici illiberali, scriveva ,« la democrazia non è il governo della maggioranza,è il governo di coloro che si fanno garanti e interpreti della maggioranza. Non è il popolo che dirige in questa specie di governi, ma coloro che conoscono quale sia il vero bene del popolo felice distinzione che permette di agire in nome delle nazioni senza consultarle e di reclamare la loro riconoscenza calpestandole». L’aristocratico normanno non poteva prevedere che, in una società di massa, l’elite, interprete autorizzata–per virtù e competenza– dell’interesse collettivo, avrebbe inalberato la bandiera della partecipazione aperta a tutti, insegnando alle giovani generazioni, con Giorgio Gaber, che:« La libertà non è star sopra un albero,/non è neanche avere un’opinione,/la libertà non è uno spazio libero,/libertà è partecipazione». Il diritto a far parte delle «minoranze eroiche» che, dal Risorgimento alla Resistenza, passando per il fascismo, hanno segnato la storia della nazione è diventato, per così dire, un “diritto sociale”,che non si può negare a nessuno e che la rete ha messo alla portata anche di quanti non sempre possono raggiungere le ‘piazze’ o fare i sit in dinanzi ai simboli del potere. Nella partecipazione si verifica un paradosso che non era sfuggito ad Augustin Cochin,lo storico tradizionalista della Rivoluzione: « Il segreto dell’unione, le leggi del progresso sono nel fatto stesso dell’associazione. Il corpo, la società del pensiero, incoraggia e sviluppa l’anima, le convinzioni comuni. Qui è la chiesa che precede e crea il proprio vangelo. La “rigenerazione”, il “progresso dei lumi”, è un fenomeno sociale, non morale o intellettuale.» Insomma, la partecipazione per la partecipazione, la partecipazione come alfa e omega della legittimità politica. Ne deriva che la democrazia, posta dal liberale Benjamin Constant al servizio della libertà e dei diritti civili, è diventata il fine che ha retrocesso la libertà a mezzo: chi ha qualcosa da dire, venga a dirlo in quell’eterna assemblea permanente che libertari laicisti, grillini, ecostalinisti, centri sociali etc. tengono sempre dischiusa. Confronto e trasparenza sono– come, del resto, erano già stati nei Club giacobini–doveri ineludibili. Le minoranze rumorose vedono nelle maggioranze silenziose l’ipocrisia borghese, la vigliaccheria, il perseguimento del proprio ‘particulare’, il privato come carapace per sottrarsi agli sguardi del pubblico: un solo fax per la Bonino presidente, in quest’ottica, vale più di centomila schede di quanti non le darebbero mai il voto ma si fanno i fatti loro e, nel segreto dell’urna, danno la pugnalata alla funzionaria dell’Umanità.

Dino Cofrancesco

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Dino Cofrencesco
Dino Cofrancesco è uno dei più importanti intellettuali italiani nel campo della storia delle dottrine politiche e della filosofia. E' autore di innumerevoli saggi e tra i fondatori dei Comitati per le Libertà. Allergico all'ideologia dell'impegno, agli "intellettuali militanti", ai profeti e ai salvatori del mondo, ai mistici dell'antifascismo e dell'anticomunismo, ha sempre visto nel "lavoro intellettuale" una professione come un'altra, da esercitarsi con umiltà e, nella misura del possibile, "senza prendere partito". Per questo continua, oggi più che mai, a ritenere Raymond Aron, Isaiah Berlin e Max Weber gli autori più formativi del '900; per questo, al tempo dell'Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, si schierò, senza esitazione, dalla parte della storiografia revisionista, senza timore di venir accusato di filofascismo.

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