“Per l’Albatros Dino Cofrancesco interviene sulle condanne di Berlusconi. Innocente o colpevole che sia, eliminare un nemico politico con mezzi diversi dalla politica è sempre un rischio per la democrazia”.
Riassumendo con le parole di un filosofo del diritto, Paolo Becchi, candidato alla carica di Kronjurist del M5S, « la decisione della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento non poteva che respingere il ricorso presentato da Berlusconi. La Consulta, infatti, non ha negato che, quantomeno in astratto, la necessità di partecipare al Consiglio dei Ministri possa costituire un’ipotesi di legittimo impedimento a comparire nelle udienze di procedimenti penali in cui il Presidente del Consiglio è imputato. Diversamente, essa ha censurato il tentativo di Berlusconi di sottrarsi ad un’udienza mediante la convocazione di un Consiglio dei Ministri ad hoc e senza «fornire alcuna indicazione |…| né circa la necessaria concomitanza e la ‘non rinviabilità dell’impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario». Non ho le competenze del Carl Schmitt di Beppe Grillo che, nell’articolo di cui queste parole costituiscono l’incipit, Ne resterà solo uno (byoblu.com 28 giugno 2013), sembra esultare al pensiero del Cavaliere messo fuori gioco dai giudici, ma in tutta questa vicenda c’è qualcosa che mi rattrista e qualcosa che non mi convince.
A rattristarmi, è l’irrimediabile costume italico per cui se il proprio avversario viene allontanato dal teatro della politica (e ,nei casi estremi, non lo si vedrà più non solo sul palcoscenico ma, altresì, in hac lacrimarum valle) sono leciti i festeggiamenti, non importa il modo in cui è stato estromesso dal potere. Nell’accurato sceneggiato sulla Grande Révolution, realizzato dalla TV francese per il bicentenario e suddiviso in due parti (“Les Années Lumière” diretta da Robert Enrico e “Les Années Terribles” diretta da Richard Heffron), la saggia Lucille Desmoulins impallidisce alla notizia che il più implacabile nemico del marito Camille, Jacques-René Hebert, sia stato processato e condannato a morte per complicità con la monarchia: se gli hanno potuto muovere un’accusa così assurda, dice in sostanza a Camille–a torto alleviato dall’uscita di scena del fanatico estremista suo persecutore al Club dei Cordiglieri–significa che sono capaci di tutto e che quindi neppure noi possiamo considerarci al sicuro. Nel caso di Berlusconi, accuse assurde, come lo ‘sfruttamento della prostituzione’, che assimilano Trimalcione–il corrotto epulone del Satyricon di Petronio—a un impresario di bordelli, non hanno fatto riflettere, a sinistra, nessun garantista di lungo corso, ove si eccettui un bellissimo articolo di Ritanna Armeni sul ‘Foglio’: era così grande la gioia dell’azzoppamento del caimano da portare i suoi antipatizzanti, nel migliore dei casi, a sobrie e contenute dichiarazioni di ‘rispetto delle sentenze della magistratura’(formula ipocrita e gesuitica come poche altre, se non si chiarisce cosa s’intende per rispetto o addirittura se si pretende che il rispetto includa anche il divieto di critica) e, nel peggiore, a invocare il ristabilimento dell’Inquisizione (laica, questa volta, beninteso e affidata ai custodi della pubblica moralità, che in piena coerenza, tessono l’elogio del moralismo). Nessuno sembra aver ragionato come Lucille Desmoulins: il potere di formulare i più incredibili capi d’accusa azzera i nostri diritti civili ed espone le nostre esistenze alla più assoluta precarietà. L’essenziale, per molti, è che, «nella sostanza», sia stata fatta giustizia e che un farabutto abbia avuto quel che si meritava. Essere persone perbene, che non hanno niente da nascondere, al di là delle ‘forme’(che, oltretutto, impediscono di tradurre in giudizio un criminale quando non si hanno le prove del reato) e delle procedure, è considerata la migliore garanzia dall’arbitrio delle istituzioni.«Se non ho fatto nulla di male, non può accadermi nulla»: non erano queste le rassicurazioni date da Antonio Di Pietro a quanti si mostravano preoccupati dalle intercettazioni?
A non convincermi delle decisioni della Consulta, invece,è l’affermazione di un principio che, se ho capito bene, è, per non dire altro, sconvolgente, alla luce sia del buon senso dell’uomo della strada, sia di una concezione seria e responsabile della democrazia liberale. Si tratta, in parole semplici, di attribuire ai giudici il potere di stabilire se un Consiglio dei Ministri, convocato per una certa data e con un certo ordine del giorno, giustifichi o no il «legittimo impedimento a comparire nelle udienze di procedimenti penali in cui il Presidente del Consiglio è imputato».Non si è rilevato abbastanza, soprattutto da parte dei costituzionalisti, che tale potere, ad essere coerenti fino in fondo, significa l’azzeramento della politica ovvero lo spostamento della sovranità effettiva dalla politica alla magistratura.«E’ sovrano, secondo la nota formula di Carl Schmitt, chi decide sullo stato d’eccezione»: in Italia, diventa sovrano chi decide sulla rilevanza dell’odg sottoposto al Consiglio dei Ministri. Il capo del governo è, sì, libero di riunire i ministri attorno a un tavolo, alla data che riterrà opportuna e con un determinato odg ma, nel caso in cui debba presentarsi davanti a un tribunale, sarà quest’ultimo a decidere se la data era davvero indilazionabile e se all’odg vi erano davvero questioni urgenti.
Non vorrei essere equivocato. Non nego affatto che un premier furbastro e spregiudicato si possa avvalere degli ‘improrogabili impegni di governo’ per sottrarsi a imbarazzanti interrogatori in aula gestiti da PM nel loro ruolo di mastini del Codice Penale: quello che mi preoccupa, come cittadino e come liberale, è la facoltà del magistrato di fare il ‘processo alle intenzioni’ e, ancora di più,il diritto di esaminare la validità della giustificazione. Al giudice, insomma, si riconosce lo stesso potere del preside di accertare se i motivi addotti dai genitori per le assenze dei figli dalle lezioni siano validi o no, siano plausibili o no. Ne consegue che, comunque la si giri, la Consulta ha assegnato alla magistratura—che, per la nostra Costituzione, non è un potere ma un ordine– prerogative che la pongono su un piano nettamente superiore all’esecutivo—che invece è un potere (e, particolare non trascurabile, legittimato dal consenso popolare). In tal modo, è andata oltre lo stesso Montesquieu o, meglio, dei suoi interpreti nordamericani che vedevano i tre poteri –esecutivo, legislativo, giudiziario—in relazione dialettica e posti sullo stesso piano.
E’ forse superfluo sottolineare che in un rapporto tra governo e magistratura ‘alla pari’, un impedimento dovuto a un impegno ministeriale non avrebbe alcun bisogno di essere giustificato quanto al giorno di convocazione e agli argomenti in discussione: nel debito riguardo dovuto alla magistratura, dovrebbe essere solo ‘comunicato’. Come si verifica, del resto, nelle relazioni che si instaurano nella società civile: se all’ultimo momento non posso partecipare a un Convegno, che mi vede tra i relatori, sono tenuto ad avvisare gli organizzatori ma nessuno può sindacare sui motivi del mio ritiro e condannarmi a una penalità anche se, dopo averli spiegati (per dovere di ospitalità), quei motivi venissero trovati deboli.
Nello stato moderno–e la sua species democratica liberale non fa eccezione–è al leader politico che spetta decidere (sovranamente) come e quando indire un Consiglio dei Ministri e per discutere cosa : come il pilota di un aereo transcontinentale, può cambiare le disposizioni di bordo e invertire, in caso di necessità, la rotta senza essere obbligato a consultarsi coi passeggeri della business class o a chiederne il benestare. Il comandante risponderà poi alla Compagnia per il suo operato, il capo del governo risponderà agli elettori.
Lasciamo perdere per un momento il Cavaliere e i suoi guai personali (a mio avviso, meritati, peraltro, sul piano morale ma non su quello giudiziario) e facciamo, almeno una volta, mente locale ai principi– quei famosi principi che,a differenza delle leggi che, nella spiritosa battuta di Giovanni Giolitti,«si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici», sono chiamati a tutelare i diritti di tutti, amici e nemici. Se dovessero decidere i giudici—che hanno in mano il coltello della messa in stato d’accusa di un’alta carica dello Stato– quali giorni e quali temi giustifichino il ‘legittimo impedimento’, chi potrebbe trattenerli dal ritenere, ad es., che una visita di Stato sia assai poco importante o che progetti di legge all’esame del governo possano tranquillamente essere rinviati ad altra data, senza alcun pregiudizio per il paese?
Chi ricopre una carica pubblica dispone di un potere che—non siamo nati ieri—di cui può avvalersi per le sue convenienze personali sennonché i problemi che si pongono sono due. Il primo è quello di stabilire se l’autorità politica, superiorem non recognoscens, è tenuta a giustificare i suoi comportamenti ad altri organi dello Stato e non agli elettori, com’è nella logica della democrazia rappresentativa (soprattutto quando quei comportamenti non pregiudicano in alcun modo gli affari pubblici e non abbiano un carattere criminoso che faccia scattare l’impeachment); il secondo è quello di chiedersi se il possibile uso privatistico di facoltà attribuite a una carica dello Stato giustifichi—sempre in mancanza di ‘delitti’ palesi e accertati di cui si sia resa responsabile nello svolgimento delle sue mansioni—l’attribuzione di un potere sanzionatorio alla magistratura, destinato a promuoverla non solo a ‘ terzo potere’(senza tener più conto della Costituzione ‘più bella del mondo’!) ma, altresì, a conferirle prerogative che la rendono superiore agli altri due e che non è forzato definire ‘sovrane’.
In queste delicate faccende politiche e costituzionali, non è affatto pretestuoso il ricorso alla democrazia fatto dai critici delle sentenze della Consulta, con grande scandalo delle Vestali della Pubblica Moralità: non si tratta, infatti, di contrapporre la sovranità popolare alla sovranità della legge—contro la pretestuosa ‘tirannia della maggioranza’—ma, al contrario, di far valere la distinzione liberale tra sanzioni giudiziarie e sanzioni politiche. Se uno statista si comporta in maniera disinvolta, disertando un’udienza che lo riguarda come privato cittadino e non come capo del governo, il compito di punirlo spetta agli elettori non ai magistrati o a un eventuale collegio dei probi viri da istituirsi per venire incontro alla ‘fame di giustizia e di trasparenza’ dei lettori del ‘Fatto quotidiano’e dei blogger di Beppe Grillo.
Nella fattispecie, «la legge è eguale per tutti» non significa, genericamente, che i cittadini vanno trattati tutti allo stesso modo ma che i «ruoli» che si trovano a svolgere siano pesati tutti sulla stessa bilancia. A un generale incaricato di guidare un reparto di marines nello sbarco in Normandia non si toglie il comando se, a suo carico, pende l’accusa di aver abusato della domestica minorenne: il reato di cui lo s’incolpa, infatti, non ha nulla a che fare col ruolo che si trova a svolgere in quel momento cruciale.(In un paese civile sarebbe stato inconcepibile un avviso di garanzia fatto recapitare a un Presidente del Consiglio durante una conferenza internazionale ma da noi si è visto anche questo).Ovviamente, tornato in patria e messo in congedo (o sospeso dal servizio),quel ruolo viene meno e, ridiventato un cittadino come tutti gli altri, è costretto a presentarsi in giudizio (accompagnato, naturalmente dal suo avvocato e forte dell’habeas corpus, che sta nella Costituzione americana ma non nella nostra!). Le cariche governative non sono eterne e se un premier si sottrae alla comparizione in aula in un giudizio che lo riguarda come ‘privato’—purché non scattino i termini di prescrizione del reato—si può ben aspettare in nome della ‘democrazia’(sì proprio in nome della ‘democrazia’ e del rispetto degli elettori..) che torni ad essere un ‘uomo qualunque’ e come tale sia costretto ad assumersi le sue (eventuali) responsabilità penali. Insomma, nella filosofia moderna, ogni ruolo come ha diritti e doveri specifici così va incontro a sanzioni specifiche ovvero comminate per quel preciso ruolo non per altri. Talleyrand sarà stato pure, come lo definì Napoleone, un pezzo di letame in un guanto di seta ma il suo ruolo di ministro e di diplomatico ne ha fatto un benemerito della Francia, e forse anche dell’Europa, stando al noto saggio di Guglielmo Ferrero.
Si è parlato di ‘ritorno al medio Evo’ e, a mio avviso non a torto. Nell’ideologia di certi settori della magistratura e della nuova sinistra (antagonista e non), la magistratura è quasi divenuta il vecchio ‘potere spirituale’ al quale il potere temporale (governo e parlamento) deve prestare atto di obbedienza e di sottomissione. L’Autorità Ecclesiastica dei ‘secoli bui’ colpiva i potenti della terra con la scomunica, oggi l’Autorità Giudiziaria può colpirli con la galera. La vecchia talpa tribunalizia ha scavato bene e sta beneficiando di un trend postmoderno in atto da almeno settant’anni. Rendere trasparenti tutti i rapporti sociali, giuridicizzare tutte le intersezioni umane ha finito per erodere definitivamente lo spazio di discrezionalità, di insindacabilità, di responsabilità differita che caratterizzava la dimensione politica dello Stato moderno. Quando tutti i giochi si fanno a carte fanno a carte scoperte per consentire al Grande Fratello Magistrato di verificare se sono in regola’, se non ci sono state violazioni di diritti, se le cose si sono fatte al tempo giusto e al modo giusto, si entra nella dimensione della ‘trasparenza totalitaria’, in quella incubosa casa di vetro, in cui non ci sono più segreti per nessuno e in cui, cancellata ogni privacy ,si metterà un potere immenso nelle mani di concittadini «più eguali degli altri».Forse non è mai troppo tardi per scoprire, con buona pace di Leo Strauss, il nesso profondo (e insospettato) che lega Nicolò Machiavelli al liberalismo dei moderni.
Dino Cofrancesco