Con il decreto dignità abbiamo visto un altro tentativo di creare posti di lavoro per decreto.
Sono anni, se non decenni, che assistiamo sempre allo stesso sforzo che riappare sotto diverse sembianze: dagli incentivi a chi assume, alla riduzione delle imposte, dalla concessione di particolari agevolazioni a chi tramuta un contratto a tempo in uno definitivo, alle recentissime norme che regolano l’uso dei voucher e del lavoro a termine…
Tutti tentativi anche lodevoli dal punto di vista di soddisfare una delle necessità fondamentali dell’individuo: la sicurezza di avere un lavoro con cui vivere.
Ma sempre destinati al fallimento, perché partono da un presupposto sbagliato: che un imprenditore assuma dipendenti perché ci sono delle facilitazioni.
Un imprenditore assume solo se prevede un aumento del proprio giro d’affari: più lavoro richiede più dipendenti; qualunque siano le facilitazioni o gli incentivi proposti.
E saranno (tranne casi particolari come turismo o agricoltura) contratti permanenti, perché a nessuno conviene addestrare un operaio per lasciarlo a casa dopo alcuni mesi. Così come per lo stipendio vale la legge della domanda e dell’offerta: un lavoratore capace viene pagato per quanto sa fare e non per quanto stabilisce la legge.
E’ uno degli assiomi della teoria liberale: è l’imprenditore che nell’organizzare le forze di produzione, nel prevedere gli sviluppi della domanda, nel rischiare in proprio deve decidere se e quanto assumere, non lo Stato attraverso un decreto.
Se si vuole una maggiore occupazione occorre aumentare il PIL, l’attività delle imprese, il giro degli affari. Altrimenti si avrà sempre un’occupazione fragile, artificiale, sottoposta al capriccio dei vari decreti e delle preferenze dei politici di turno.
Occorre una visione liberale (e non socialista) del mercato del lavoro
di Angelo Gazzaniga