Il “World Press Photo 2014” ha premiato come foto più bella dell’anno quella dell’americano Stanmeyer,
collaboratore tra l’altro di “National Geographic”, che rappresenta – di
notte e al chiarore lunare – i migranti in piedi sulla spiaggia di Gibuti
che cercano il segnale perduto con i propri cellulari, nel tentativo di
chiamare casa, informare e contattare i cari, cercare l’ultima
“protezione” affettiva o economica. Notevole appare l’impianto prospettico
della Foto, con un migrante più alto in primo piano a sinistra e gli
altri via via degradanti verso il mare, lievemente increspato sotto la
luce della Luna. Che è velata in cielo, all’angolo destro, ma
restituisce, così, il “senso del celeste”, ancoraggio di infinito, che
governa il destino esistenziale dei migranti. In effetti, è l’ultima
testimonianza – questa – del ‘senso oceanico’, del riferimento
all’infinito, come lo chiamava Koestler, che sorregge gli uomini anche nei
momenti più difficili della storia. Alcuni cronisti han già notato
l’originalità e la bellezza della foto. Ma non mi sembra che sia stato
colto proprio questo intrinseco aspetto poetico o metafisico dello
‘scatto’. Solo che l’ancoraggio al cielo e all’infinito – per dire così –
è qui attuato attraverso la “tecnologia”. Sono cioè i cellulari alla
disperata ricerca di rete che, protesi verso l’alto, s’illuminano e
riflettono la luce lunare, creando così l’ancoraggio, la ricerca di
aggancio e di comunicazione. E’ un senso del celeste di “seconda natura”,
ma carico egualmente di bisogno affettivo, di simbolo spirituale, Forse
Dante e Leopardi, Baudelaire o Bassani non sono lontani.
Giuseppe Brescia