La giustizia giustizialista egiziana

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Se una pena dev’essere commisurata a un reato è persino pleonastico rilevare che la condanna a morte di 529 membri della Fratellanza musulmana per l’uccisione di un agente di polizia ha i caratteri dell’esagerazione. Ma ancora una volta il metro di valutazione non può attestarsi sugli apriorismi categoriali. Non foss’altro perché, paradossalmente, un principio attualmente escluso dalla storia egiziana è proprio quello di giustizia.
È desolante ammetterlo, ma leggere la contingenza egiziana con il metro della giustizia è vano. E non perché la giustizia non funzioni – non è mai stata così efficiente – ma perché la natura bellica del confronto fra Fratellanza e forze dell’ordine la fa coincidere con il giustizialismo.
Il vacuum di legalità è d’altronde ravvisabile a tutti i livelli. Come non è di natura legale la scomposta battaglia dei sostenitori del deposto raìs Mohammad Morsi contro lo Stato, non lo sono gli strumenti impiegati dalla giunta militare per affrontarla: dall’assoldamento di una magistratura de facto compiacente alla censura sistematica delle voci di opposizione attraverso media (privati e pubblici) altrettanto compiacenti. Come non lo sono le azioni terroristiche condotte nei centri urbani e nella penisola del Sinai, non lo sono gli arresti arbitrari promossi dalla polizia.
Insomma, di legale attualmente in Egitto non c’è nulla. Eppure solo una sensibilità eurocentrica non vorrebbe riconoscere che in questo paradosso – una giustizia asservita al giustizialismo – è la verità dell’Egitto di questi mesi.
E poco vale il controcanto agli indiñados di chi, protestandosi difensore della legalità e laicità dello Stato, legittima di fatto il ripulisti delle forze eversive della Fratellanza. Qui non siamo di fronte a due ragioni ma a due torti. E uscire dalle secche di tale aporia si può solo attraverso il più spregiudicato dei realismi.
Realismo vuole che la storia egiziana non sia ancora stata contraddistinta dalla democrazia. E che forse il processo rivoluzionario che a questo obbiettivo mirava e mira non abbia infine prodotto, fino a oggi, che una mirabile utopia. Ma da qui a gridare che non esistano giustificazioni alla provvisoria sospensione della giustizia ne passa.
Tanto per cominciare, è realistico pensare che nei confronti di una controffensiva reazionaria e terroristica come quella della Fratellanza – il caso del poliziotto ucciso è solo l’epifenomeno di una serie di stragi – possano riuscire efficaci misure di giustizia giusta quali, con fin troppo ovvia inclinazione, se ne aspetterebbero gli occidentali o Amnesty International?
Una diffusa sensibilità di massa, in Egitto – erede di ottant’anni di radicalismo islamico sub specie proselitistica – afferma con perentorietà che una simile prospettiva non solo è irrealistica ma deleteria. All’appello di una giustizia giusta reagisce anzi con un risentito “Non per la Fratellanza!”
E laddove pure si voglia immaginare una soluzione equanime e sorda agli appelli del risentimento popolare – diciamolo chiaro, dell’odio popolare – siamo sicuri che questa avrebbe un potere di deterrenza effettivo? Certamente no, poiché un calcolo sedimentato nell’esperienza – dalle “purghe” di Nasser in poi – ci insegna l’inefficacia di ogni azione dissuasiva fondata sulla giustizia giusta. E ci ricorda, drammaticamente, che la malerba va estirpata o altrimenti prolifera.
Ora, è del tutto evidente che anteporre il sapere empirico agli imperativi giuridici della giustizia eo ipso sia in contraddizione con le istanze di un paese che si vuole volto alla democrazia. Ma qui non si tratta di scegliere i princìpi a discapito delle condizioni di vita concreta di un popolo. Si tratta, desolatamente, di anteporre tali condizioni ai princìpi che le potrebbero produrre. Se la storia di ottant’anni di Fratellanza qualcosa ci insegna è infatti che nel segno dell’immolazione sono sempre state reiterate tutte le possibili forme di eversione a partire da quel “sacrificio sulla via di Allah” che è il martirio come espressione di fede teocratica.
Contro un simile stato di pensiero – insensibile esso in primis a qualunque concetto o concezione di giustizia democratica – è gioco facile per una Realpolitik esposta a uno stato di guerra di fatto rivendicare il “dente per dente” coranico come “sola”, “provvisoria” – si spera – contromisura possibile.
Naturalmente tutto ciò fa inorridire. Ma se la sentenza di morte dei 529 membri della Fratellanza qualcosa dovrebbe indurci a considerare non è tanto che riabilitare il nostro sempreverde istinto al raccapriccio è patetico, bensì a domandarci se su vasta scala una qualche forma di giustizia giusta sia ravvisabile su altri teatri di guerra. Non lo è in Crimea. Non lo è in Siria. Non lo è nel Gibuti. Non lo è in Venezuela. Eppure è del tutto ovvio come altrove la priorità degli interessi veli – usiamo un eufemismo – l’uso discriminatorio e ingiusto o giustizialista della giustizia. Ma poiché l’Egitto nutre interessi che non sono i nostri e le azioni terroristiche della Fratellanza minano di fatto tali interessi locali più di qualsiasi altro elemento di destabilizzazione interno e internazionale, sembra che a tali interessi, surrogati da una giustizia giustizialista, si voglia dare lettura più severa e meno comprensiva, meno elastica e meno liquida.
Se qualcosa questa vicenda dovrebbe insegnarci è dunque a non tollerare l’intollerabile in casa nostra per poi reclamare aprioristiche ragioni di giustizia equanime laddove gli interessi non coincidono con i nostri.
Si denunci naturalmente l’abuso di potere di uno Stato militare che fa strame delle più elementari regole della giurisprudenza. Ma si sappia cogliere negli interessi che lo muovono le stesse ragion di Stato che muovono noi a soprassedere su scempi anti-democratici di ben altra entità e rilevanza.

Marco Alloni

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