La vera divisione è tra conservatori e progressisti, non tra destra e sinistra
Quella legge che ormai tutti chiamano “Jobs Act” (forse perché fa più fino, più economista) e che noi continueremo a chiamare legge sul lavoro risulta essere una vera cartina di tornasole per gli schieramenti politici italiani.
Una prova in più che la differenza tra destra e sinistra, che per decenni ha dominato la vita politica italiana, è ormai una differenza senza senso: la vera differenza è tra conservatori e riformatori, tra chi le riforme cerca di farle e chi parla per slogan a soli fini elettorali.
Proprio su questa legge fondamentale per far ripartire un’economia ormai asfittica e soprattutto per attirare capitali e investimenti stranieri (vedi quando successo in Spagna con il governo Rajoy – di centro destra – e anni fa in Germania con il governo Schröder – di centro sinistra -) c’è stata una spaccatura evidente e drammatica.
Da una parte i veri conservatori, quelli che vorrebbero che tutto rimanesse come prima magari con qualche giro di valzer tanto per dare un’impressione di cambiamento, autentici gattopardi della politica: la CGIL (che difende il suo potere di blocco acquisito in decenni); l’ala sinistra del PD e Sel (legati alle vecchie ideologie marxiste); la Lega (che si allea in questo caso con i comunisti per pescare tra gli scontenti); Grillo (che dice quello che la sua gente vuol sentirsi dire): sono quelli degli slogan che abbiamo tanto spesso sentito in questi giorni: “la centralità deve essere del lavoro” (Camusso: ma a cosa dovrebbe servire una legge sul lavoro se non ad aumentare i posti di lavoro?); “l’art. 18 non si tocca” (Grillo, più esplicito di così!)
Affermare che la situazione dell’economia mondiale e del modo stesso di concepire il lavoro è cambiata e contemporaneamente rifiutarsi di modificare tutto il meccanismo del lavoro e del collocamento è talmente illogico da giustificare i peggior sospetti.
Dall’altra tutti gli altri, da Renzi a Berlusconi, da Alfano alla Uil e alla Cisl, che, con varie sfumature, distinguo e critiche più o meno esplicite e giustificate cercano di introdurre una legge che, pur migliorabile e criticabile quanto si vuole, ha un grandissimo merito: quello di smuovere una situazione di stallo e di immobilismo che dura da decenni.
Una prova ancora di più che (come da sempre sostiene Libertates) le riforme occorre proporle, farle e attuarle con coraggio anche se si scontrano con la difesa di privilegi, rendite di posizione, zone di parassitismo e inefficienza; anche se nell’immediato possono portare alla perdita di qualche voto, alla fine premiano chi ha avuto il coraggio di proporle, il coraggio di fare politica e non interessi di bottega o di partito.
Le riforme che si fanno con il consenso unanime, con l’unanimità non sono riforme: sono operazioni gattopardesche per non cambiare nulla.
Certo: per un vero liberale lo Stato non dovrebbe intromettersi nella contrattazione tra sindacati, lavoratori e datori di lavoro se non per fissare paletti e limiti a garanzia dei più deboli e della libertà di contrattazione, ma questo è in Italia ancora un sogno…
Angelo Gazzaniga