Quanto è successo in Brasile è un monito anche per noi italiani (che ai tempi di Italia ’90 ci siamo comportati più o meno alla stessa maniera o forse peggio: spese faraoniche più che per orgoglio nazionale per raccogliere bustarelle…)
D’accordo, sette gol nella propria rete sono tanti, e qualche lacrimuccia i brasiliani possono averla legittimamente versata. Ma il disastro della loro nazionale di calcio, umiliata dalla Germania, impartisce un insegnamento globale a chi crede in una cultura delle libertà.
Primo: confondere politica e sport – anzi la colonizzazione dello sport da parte del potere politico – è una solenne sciocchezza, oltre che un tradimento del mandato popolare. E questa sciocchezza l’ha commessa la signora Dilma Rousseff, presidentessa del Brasile, ex guerrigliera convertita al potere democratico, creata dal nulla dall’ex presidente Lula perché continuasse la sua politica statalista e populista. La Rousseff ha creduto di cavalcare i campionati mondiali di calcio per rendersi popolare e farsi rieleggere; la mazzata subita sul campo dalla sua nazionale è rimbalzata anche sulla sua testa.
Secondo: in un paese normale lo sport non è un surrogato dell’orgoglio nazionale, ma è principalmente una passione, un modo di esprimere i propri intimi e magari reconditi istinti, però è anche un’espressione culturale, una via al miglioramento di se stessi attraverso l’accettazione dell’impresa altrui e la maturazione del rispetto per l’avversario.
Terzo; il calcio per qualcuno sarà lo sport più bello del mondo, ma altri possono divertirsi legittimamente di più con la boxe o gli scacchi. Sbagliata è la monocultura calcistica (e del resto se ne sono visti i risultati) sia in Brasile come in Italia. Un paese cresce se consente ai suoi cittadini di partecipare, impegnarsi e magari eccellere in tutte le possibili discipline, senza isterie e psicodrammi come succede in Brasile o in Italia.
Quarto: nonostante una ben coordinata manovra propagandistica dei media, il governo di sinistra della Rousseff è al capolinea non perché ha puntato sullo sport sbagliato, ma soprattutto perché paga anni di politica statalista, di controllo artificioso dei prezzi, di monopolio nel campo del petrolio e dell’energia. Paga perché ha preso in giro la gente investendo in stadi, attrezzature e manifestazioni faraoniche: panem et circenses, secondo l’insegnamento degli antichi romani (il loro impero alla fine non ha retto al sopraggiungere della globalizzazione di allora). E così, anziché trovarsi fra i grandi paesi emergenti del cosiddetto “Brics” (con Russia, Indonesia, Cina e Sudafrica) il Brasile della Rousseff rischia di finire tra i “Pigs”, i paesi ripetenti da mandare dietro alla lavagna, senza aver minimamente risolto nel frattempo il tremendo problema della povertà e delle favelas.
La classe politica italiana, e magari anche qualche teorico della politica sociale vaticana, tentata di questi tempi da una specie di neoperonismo dottrinario, farebbero bene a meditare.
Dario Fertilio