Il Giappone ha ancora da insegnarci qualcosa?
Quella pulitissima ultima meta con cui il Giappone ha sconfitto il Sudafrica, all’esordio dei campionati mondiali di rugby, porta con sè più di una lezione. Sportiva innanzitutto, ed è ovvio. Partendo praticamente da zero non molti anni fa, e basandosi solo sulla passione e lo spirito di dedizione tipicamente nipponici, i figli del Sol Levante hanno messo insieme una squadra capace di un’impresa superiore a quella calcistica della Corea, quando sconfisse inopinatamente l’Italia. Perché i giapponesi avevano di fronte gli Springbocks, due volte campioni del mondo e ambasciatori oggi di una filosofia, non solo sportiva, che costituisce l’identità della stessa nazione multirazziale sudafricana. Non disponevano, per ragioni morfologiche, di legioni di supermen naturali cui attingere per i ruoli di mischia. E in più erano l’unico paese asiatico – finora – a competere ad alto livello nel mondo della palla ovale. L’impresa sportiva ne è risultata ancora più strabiliante perché la vittoria (per 34 a 32) è arrivata grazie a una meta decisiva e strepitosa realizzata all’ultimo secondo di gioco.
Ma la lezione impartita dal Giappone non si ferma qui. Quel che manca all’Italia oggi non è solo una mentalità del sacrificio e dell’organizzazione – cosa che la accomuna a una gran parte del sazio Occidente. La grande assente è anche una cultura pluralistica, intesa in senso sportivo: la monocoltura del calcio-business – corredata da una marea di chiacchiere e alienanti divagazioni giornalistiche – ha cancellato il piacere del competere in campi diversi, il gusto di essere polivalenti e dilettanti di talento, sostituendola con la chiacchiera da bar e l’abbonamento a qualche rete a pagamento da pantofole e pancetta. A tutti, calciofili e non, il Giappone indica una via differente.
Gaston Beuk