L’attuale situazione nei rapporti tra Italia e Libia viene da lontano
Cosa abbiamo guadagnato e cosa abbiamo ottenuto con la mediazione, a Palermo, fra le due principali fazioni in lotta nella guerra civile di Libia? C’è chi dice che sia stato un flop, concentrando l’attenzione sulla plateale uscita di scena della Turchia, che ha abbandonato il tavolo negoziale. C’è chi, invece, sottolinea il successo del primo summit libico promosso dall’Italia, dopo anni in cui ci siamo limitati a seguire la politica di potenze più attive nell’area, quali Francia e Usa.
La vera domanda, è: perché prima non eravamo noi a gestire la crisi libica? Tutto sommato è l’Italia la potenza ex coloniale nel paese nordafricano. È l’Italia che ha la maggiore e più lunga esperienza negli affari libici. È sempre l’Italia la nazione europea geograficamente più vicina. Eppure siamo quasi del tutto esclusi dalla gestione della crisi libica post-Gheddafi. La narrazione sovranista ha la risposta prontissima: l’Italia è esclusa perché è vittima, dal 2011, di un complotto di grandi potenze, fra cui soprattutto la Francia di Sarkozy. Secondo questa narrazione, l’intervento NATO contro Gheddafi voluto soprattutto dall’allora presidente francese, mirava a spodestare non solo il dittatore libico, ma anche gli interessi italiani in Libia. Questo modo di vedere e di raccontare la storia recente libica, porta molti italiani a rimpiangere il colonnello, con i suoi costumi pittoreschi, la sua tenda piantata a Roma, il suo ostentato odio contro il colonialismo italiano, ma anche la sua promessa di “stabilità”. Questa nostalgia si è rafforzata dopo lo scoppio della seconda guerra civile libica, iniziata nel 2014 e mai finita. E soprattutto dopo l’inizio della crisi dei migranti, attribuita al collasso del controllo politico sulla Libia. (Dimenticando, però, che le crisi migratorie e gli sbarchi a Lampedusa c’erano anche quando il colonnello Gheddafi era ancora al potere).
Vista così, la storia risulta incomprensibile. Perché, se Gheddafi era tanto amico dell’Italia, perché se avevamo firmato con lui un Trattato di Amicizia e Cooperazione, abbiamo permesso alla NATO di usare le nostre basi per una guerra che si è conclusa con la sua uccisione? Perché l’Italia ha anche partecipato attivamente a quel conflitto? Perché Silvio Berlusconi, allora Presidente del Consiglio, si è lasciato convincere da Sergio Napolitano, allora Presidente della Repubblica, a partecipare a un intervento militare internazionale che tutto il suo Centrodestra avversava? È da queste domande senza risposta (senza una risposta convincente) che parte la teoria del complotto internazionale e dell’Italia, solita “nazione proletaria” sfruttata da alleati potenti, costretta a fare una guerra che non voleva, pur di non subire perdite economiche ancora maggiori.
Tuttavia, ben prima della guerra del 2011, lo storico del futuro dovrà rispondere a tutta un’altra serie di domande inquietanti sulla storia recente italiana. La prima di queste è: che rapporti c’erano, realmente, fra l’Italia e il regime di Gheddafi? Perché c’è il sospetto, non del tutto infondato, che il golpe con cui è andato al potere il colonnello, sia stato aiutato dall’Italia. E questo sospetto si rafforza, se si considera che fu Bettino Craxi, nel 1986, a salvare la vita al colonnello. L’allora Presidente del Consiglio (secondo la testimonianza di Giulio Andreotti e dell’allora ambasciatore libico in Italia) gli telefonò personalmente, avvertendolo che gli aerei americani stavano arrivando su Tripoli per bombardare la sua residenza, come rappresaglia per l’attentato di Berlino. E quando Gheddafi, per vendicarsi contro la NATO, lanciò missili Scud proprio contro l’Italia, la risposta del governo Craxi fu: nulla. Gheddafi e il governo italiano erano d’accordo anche su quello? Sapevano che si sarebbe trattato di un atto dimostrativo senza conseguenze materiali?
L’altra domanda è: Gheddafi fu un alleato affidabile? A questa domanda risponde già adesso la storia del terrorismo. Perché il colonnello libico, molto prima di Bin Laden, fu il maggior finanziatore e mecenate del terrorismo internazionale. Allora non si parlava ancora di jihad, ma di nazionalismo arabo e di terrorismo rosso. Gheddafi foraggiò entrambi. Ci si mise di persona, quando poté. A posteriori riconobbe come propria responsabilità diretta la sua peggiore strage, l’abbattimento di un aereo civile a Lockerbie, nel 1988. Non è ancora chiaro quanti attentati commessi in Italia, da terroristi palestinesi e rossi, siano di responsabilità diretta o indiretta di Gheddafi. Arrivati al primo decennio degli anni 2000, tutto il mondo odiava il rais libico. Ognuno, inglesi, americani, francesi aveva i suoi motivi per vendicare morti subiti negli attentati da lui promossi.
Terza domanda: fece almeno il bene dei libici? Con una popolazione sottoposta a uno dei regimi totalitari più duri del mondo arabo, con torture, esecuzioni di massa e controllo capillare della società, anche la sua popolazione, evidentemente, non era molto soddisfatta. Nei primi mesi del 2011, con la primavera araba già in corso in Tunisia ed Egitto, la nostra intelligence assicurava che la Libia fosse “stabile” e tuttora gli studi italiani narrano di una società con livelli di benessere superiori a quelli degli altri paesi vicini. Tuttavia, già nel febbraio del 2011, la rivolta contro Gheddafi dilagava. In realtà non si trattava della prima rivolta contro il raìs. Ma solo della prima rivolta andata in porto e della prima (visto il contesto) che ha attirato l’attenzione internazionale. E i nostri esperti allora hanno iniziato a parlare di “complotto” delle potenze occidentali.
Non appena il suo potere è apparso per la prima volta vacillante, con lo scoppio della guerra civile nel 2011, le democrazie occidentali hanno colto l’occasione per saltare addosso al vecchio sponsor del terrorismo mondiale. Solo l’Italia appariva completamente priva di rancori ed entusiasta del “nuovo corso” di Gheddafi che, dismessi i panni del destabilizzatore, si era autoproclamato portavoce dell’Africa intera e campione della guerra contro il nuovo terrorismo, quello jihadista. Con cui, comunque, in tempi non sospetti aveva flirtato e con cui minacciava di flirtare ancora fino ai suoi ultimi giorni. Quanto all’Africa, se oggi ci lamentiamo della tratta dei migranti, non dobbiamo dimenticare che alla bomba migratoria ha contribuito proprio il colonnello. Con la sua pretesa di essere il leader politico e morale del continente, ha incoraggiato tutti gli africani a emigrare in Libia. Poi, una volta giunti a destinazione, si vedevano trattati come schiavi e come sub-umani (persino l’uccisione di un nero era tollerata) da un regime molto più che razzista.
Una quarta domanda è: almeno Gheddafi ha fatto gli interessi dell’Italia? Era il “nostro figlio di p***na” come Roosevelt cinicamente definiva l’impresentabile alleato nicaraguense Somoza? Ebbene, se c’è stato, nel Novecento, un dittatore arabo che ha odiato gli italiani più ancora degli ebrei, questo è stato proprio Muammar Gheddafi. La sua Giornata dell’Odio Anti-Italiano era nel calendario ufficiale. Gli italiani che abitavano in Libia, anche nei decenni successivi alla fine del nostro colonialismo, sono stati privati di tutte le proprietà, di tutti i diritti e infine espulsi in massa. Il regime del colonnello non ha lasciato in pace neppure i morti: i cimiteri italiani venivano periodicamente profanati, con il beneplacito del regime. La comunità degli italiani vittime del regime libico, tuttavia, non ha voce e non ha alcuna rappresentanza. È più sfortunata ancora della comunità degli italiani espulsi da Istria e Dalmazia: almeno loro, dopo decenni di sofferenza, sono stati accolti (molto tardi, ma sempre meglio che niente) dal centrodestra. Gli esuli dalla Libia non sono stati accolti neppure dal centrodestra, troppo impegnato a firmare con Gheddafi un trattato che sanciva ufficialmente “amicizia” e “cooperazione”. Qualcuno ha guadagnato qualcosa dall’amicizia con Gheddafi? Nel corso dei decenni, sicuramente sì. Specie nel mercato energetico, forse anche qualcosa avrà guadagnato l’intelligence, pronta a far quadrato per celare al mondo i reali rapporti fra Roma e Tripoli. Se l’unica domanda su cui ufficiali, diplomatici e funzionari si arrabbiano (fin quasi ad arrivare alle mani, a volte) è quella che osa mettere in dubbio la bontà dei rapporti con Gheddafi, un motivo ci sarà. Ma da questa relazione segreta, appunto, hanno guadagnato alcuni italiani, non gli italiani in generale (a meno che non si creda alla fiaba che poche aziende di Stato facciano l’interesse dell’intero popolo). Oggi però, questa minoranza esigua di italiani, con i loro rapporti mai confessati con l’altra sponda del Mediterraneo, pare aver imposto al paese, alla memoria collettiva, la sua versione dei fatti. Oggi si rimpiange la perdita di un Gheddafi “amico”, che amico non è mai stato. Forse è per questo che siamo esclusi dal “grande gioco” con cui si decide l’assetto della nuova Libia.
di Stefano Magni