“Giovanni Falcone viaggiava in un aereo del Mossad, ma nessuno doveva saperlo. Era un fatto segretissimo”
Francesco Di Carlo alla Procura di Palermo, gennaio 2014
“… Di certo per il pm Gabriele Paci, c’è che Messina Denaro è custode dei “segreti e dei forzieri di Riina”, in virtù dell’antico e strettissimo rapporto del padre, Francesco, con il capo dei capi, che aprì a Matteo Messina Denaro le porte della “Supercosa”, la struttura di vertice super segreta voluta da Riina per gestire la fase stragista in combutta con altri pezzi di destra eversiva e ambienti imprenditoriali…”
Giuseppe Lo Bianco, “Caccia ai segreti del 1992 e all’archivio di Totò Riina”
Uno dei grandi meriti di George Soros, che vale più come filosofo che come business man, è stato quello di applicare la teoria della riflessività alla Giustizia.
Chi scrive nutre un forte scetticismo nei confronti dei fanatici: essi nel loro “unilateralismo kantiano” – “Fiat iustitia et pereat mundus”, “Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo” (da Immanuel Kant) – tendono a dividere il mondo in bianco e nero; ma scivolano fatalmente su una buccia di banana quando la sindrome giustizialista che indica un sottostante malessere, si scontra con la realtà riprogettata dal missionario di turno; ieri Giovanni Falcone che aveva la “malattia della star” se pur ad un alto livello di intelligenza ed eleganza che aveva costituito un unicum nel panorama della Magistratura italiana, oggi Nicola Gratteri che soffre del culto della personalità e ha un modo d’agire professionale che è stato criticato duramente da Otello Lupacchini con la bocciatura senza appello dell’indagine “Rinascita Scott”, nonché dal fine giurista Giovanni Fiandaca e da altri addetti ai lavori. Sull’arresto anomalo di Matteo Messina Denaro così simile alla scarcerazione di Lucky Luciano in condizioni storiche altrettanto gravi quanto quelle del 1943 – ’45, andrebbe articolata una riflessione in più tempi: mi limito ad osservare che la cosiddetta “zona grigia” esiste e non è, né può essere compito della giurisdizione sanzionarla; Salvatore Lucania noto come Charles Lucky Luciano diede tra l’altro un contributo tutt’altro che marginale alla vittoria degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale che non era il sesso degli angeli.
Oggi la criminalità organizzata russa in accordo con l’oligarca caduto in disgrazia Mikhail Khodorkovsky con “faccia d’angelo” (vedi Pino Arlacchi) a sua volta spalleggiato dall’M16, può rovesciare Vladimir Putin impedendo la III guerra mondiale: il “Deep State” entra in funzione nelle fasi di emergenza societaria, e non è certo compito del giustiziere un po’ Edgar Hoover Nicola Gratteri arrestare moralisticamente il corso degli eventi, con un improprio accostamento vittimistico alla icona Giovanni Falcone.
Vengo però all’inquietante caso del magistrato in pensione Giancarlo Caselli, che tra i fanatici irriducibili dei “professionisti dell’Antimafia” – vedi l’atto d’accusa sul Corriere della Sera nel 1987 di Leonardo Sciascia – è il più fanatico, con una vera e propria sindrome ossessiva per Giulio Andreotti che ha del clinicamente rilevante.
Sì, Caselli soffre di un’attenzione “monomaniacale” ad Andreotti ormai da troppi anni che cela del malessere, e sul Fatto Quotidiano delle Procure del 18 gennaio 2023 scrive tutta una serie di affermazioni sbagliate, da “one track mind” incorreggibile: lo ripeto, bisogna diffidare dei fanatici nella loro rappresentazione manichea della realtà.
Vediamo subito perché, da un attento esame del sofferente fanatismo di Caselli, che oltretutto nasconde terribili segreti (e poi vedremo quali), come la gestione del confidente Luigi Ilardo morto assassinato nel 1996; si veda la denuncia articolata di Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari per Antimafia Duemila: “Gestione del confidente Luigi Ilardo, Caselli: “Gravi limiti per ricordare” del 22 gennaio 2016, dove i vertici del noto quotidiano dell’Antimafia accostarono Caselli ad Andreotti per i “non ricordo” (sic!). La parola a Caselli:
“La “provocazione un po’ aggressiva” è la cifra stilistica di Alessandro Barbano (autorevole mafiologo, nda). Lo è per sua stessa ammissione, quando – per spiegare la guerriglia fra ultras di Roma e Napoli – si chiede “quanti di questi signori godono del Reddito di cittadinanza” (frase che Marco Travaglio, nell’editoriale del 10 gennaio, ha commentato con giusto sarcasmo). Lo è, ancor più e fin dal titolo (L’inganno: Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene), in un libro edito da Marsilio. La tesi, sviluppata in 249 pagine di irriducibile indignazione, ridotta all’osso è questa: contro la mafia si è fatto ricorso al “diritto dei cattivi”, deragliando dai binari dello Stato di diritto e della Costituzione; un’anomalia che deve essere cancellata ora che l’emergenza della mafia stragista è stata sconfitta; ma lo impedisce l’Antimafia, un “sistema burocratico, giudiziario, politico e affaristico cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito”.
Vien subito da dire che se di sistema si vuol parlare lo si deve fare per la mafia, che non è solo “Cosa Nostra stragista” e non va percepito come un problema esclusivamente di ordine pubblico, cogliendone la pericolosità solo quando mette in atto strategie sanguinarie.
Così si dimentica la straordinaria capacità di condizionamento (anche, se non più, nelle fasi di “convivenza”) che ha fatto di un’associazione criminale un vero e proprio sistema di potere. Basti pensare alle protezioni e complicità dei “salotti buoni” del potere che hanno garantito a Matteo Messina Denaro trent’anni di serena latitanza…”.
Prima di arrivare alla seconda contestazione a Caselli, osservo che esiste la “mafia dell’Antimafia” – per contrapporre motivatamente Alessandro Barbano a Caselli – deragliando dai binari dello Stato di diritto e della Costituzione con reati (commessi dai rappresentanti della Legge), altrettanto gravi quanto quelli commessi dagli uomini d’onore.
Ve ne fornisco alcuni decisivi esempi, forte della convinzione che in un Paese civile si debba privilegiare la linea suggerita a suo tempo da Leonardo Sciascia: “La repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli non sono gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti e associazioni criminali come mafia, ‘ndrangheta e camorra. La soluzione passerà attraverso il diritto o non ci sarà; opporre alla mafia un’altra mafia non porterebbe a niente, porterebbe a un fallimento completo”.
Il primo fallimento dell’Antimafia è stato l’estradizione di Tommaso Buscetta dal Brasile all’Italia, gestita dal duo Gianni De Gennaro-Giovanni Falcone, un capitolo della sempiterna “trattativa Stato/Cosa Nostra”; c’è un passaggio delicatissimo della cosiddetta “trattativa Buscetta/Falcone” che è degno di nota, anche se nessuno ne parla: l’omissione d’atti d’ufficio da parte di Falcone che non perseguì i reati commessi da Buscetta tra il Brasile e l’Italia: spaccio di droga e omicidio, mentre avrebbe dovuto farlo. Ma chiuse la “notitia criminis” nel cassetto.
Come ho già avuto modo di approfondire in un precedente dossier per Libertates, “è stato il magistrato ex componente del pool Peppino Di Lello a confessarlo “apertis verbis” in un’intervista nell’estate del 2021, in occasione della sentenza di assoluzione del generale Mario Mori e degli altri imputati al processo d’appello per la trattativa Stato/Mafia: “… Io domando: la relazione che lo Stato cerca con i collaboratori di giustizia non è essa stessa una trattativa? Certamente, è una trattativa istituzionalizzata, codificata. E ha consentito molti successi nella lotta alla mafia.
Ricordo che Tommaso Buscetta mise immediatamente, già nei primissimi colloqui con Falcone, le mani avanti. Disse: Io di me non parlerò mai”. E infatti non disse nulla dei suoi traffici di droga e dei suoi omicidi. E purtuttavia la sua è stata una collaborazione fondamentale, com’è noto a tutti per la storia del maxi processo. Anche quella fu una trattativa. Gli dicemmo: “Va bene Buscetta, dei fatti tuoi non parliamo e andiamo avanti. Dicci tutto quello che sai su tutto il resto”.
L’intervista in questione è tratta dall’articolo di Piero Sansonetti “Parla l’ex del Pool – Il vice di Falcone rade al suolo il processo Stato mafia, per Peppino Di Lello è stato un “romanzone”.
Ma non è tutto. C’è molto altro. Per esempio, è storicamente accertato che il collaboratore di giustizia Totuccio Contorno ricevette segretamente da Giuseppe Ayala, Antonio Manganelli, Gianni De Gennaro, Antonino Caponnetto e Giovanni Falcone tra gli altri il via libera per regolare punitivamente i conti con i Corleonesi attraverso la loro eliminazione fisica – nelle “revolving door’s” tra il programma di protezione USA e il rientro in Italia –, come ho già avuto modo di raccontare ampiamente nel dossier di 10 pagine del luglio 2021 “Patti chiari tra Falcone e Martelli secondo Francesco La Licata” (quindi, Falcone complice di fatto della guerra di mafia con i Corleonesi di Totò Riina); non posso riscrivere le stesse 10 pagine, ma posso citare un precedente lavoro dove ho avuto la pazienza di dimostrare in termini probanti addirittura la probabile richiesta dello spregiudicato Falcone nell’89 al pentito Totuccio Contorno di simulare il falso attentato con i 58 candelotti di esplosivo ritrovati tra gli scogli dell’Addaura: lo sospettavano Luciano Violante e i suoi colleghi della Commissione Antimafia nell’agosto del 1989 quando interrogarono Contorno, ma non ne parla nessuno e Falcone è intoccabile nella “fenomenologia dell’icona”; ma i miti visti da vicino hanno i foruncoli.
Infine, secondo le dichiarazioni rese dall’ex capo mandamento di Altofonte Francesco Di Carlo morto per covid a 79 anni, all’Autorità Giudiziaria della Procura di Palermo ai sensi dell’ex art. 192 del codice di procedura penale – costituenti il “principio (extra-ordinem”, ndr) della convergenza del molteplice” – lo stesso Falcone faceva parte della “Supercosa”: cioè il livello riservato della mafia.
“Falcone viaggiava in un aereo dei Servizi segreti. Non doveva e non poteva saperlo nessuno”.
Ma come faceva Di Carlo a saperlo?
Lo sapeva in quanto sia Di Carlo che Falcone erano organici alla medesima struttura: la “Supercosa”; l’interrogatorio in questione è stato fatto dal pm Nino Di Matteo al collaborante Di Carlo, in merito al tentato “golpe Borghese” del 1970.
E se Di Carlo è credibile intrinsecamente quando parla della mafia, perché non lo sarebbe quando parla dell’appartenenza di Falcone alla superloggia alla quale appartenevano il colonnello del Sismi Giuseppe Santovito e Francesco Cossiga, cioè il capo dello Stato che proteggeva lo stesso Giovanni Falcone?
Attenzione, perché se tutto questo è vero l’antimafia e la mafia fanno patta: un fatto, questo, intimamente connesso all’auto-consegna di MMD alle forze dell’ordine nell’ambito della trattativa sul cosiddetto “ergastolo ostativo”, che – ricordiamolo – è anticostituzionale.
La zona grigia esiste e fa parte dello Stato, ma i vari Di Matteo, Scarpinato, Lombardo e Caselli non lo capiscono essendo ancorati ad una partigianeria fascistoide della Giustizia che non ha diritto di cittadinanza nei più equilibrati paesi anglosassoni.
Ci sono altri due esempi probanti che la mafia e l’antimafia fanno patta: nell’intervista molto ben fatta del 29 gennaio 2023 al programma condotto da David Parenzo e Concita De Gregorio “In onda” di Francesca Carranini, l’ex pm a latere del maxiprocesso Giuseppe Ayala osserva: “Qualche anno fa, si scoprì che c’era in Sicilia il cosiddetto “tavolino”; cos’era il tavolino? Un tavolino in cui sedevano tre esponenti, uno della politica, uno della pubblica amministrazione, e uno dell’imprenditoria mafiosa e lì si decideva l’assegnazione degli appalti. Le gare erano formalità; questi rapporti tra esponenti di Cosa Nostra e la cosiddetta borghesia mafiosa fanno parte della storia della mafia. C’è sempre stata. Domanda: perché uno fa il mafioso? Risposta: per fare soldi e per gestire il potere. La finalità essenziale di questa organizzazione criminale è quella di attivare un circuito che io ho definito perverso; perché è un circuito? Perché più potere riesci a condizionare, più profitti riesci a conseguire. Quando parlo di potere, mi riferisco ovviamente anche al potere pubblico”. Osserva l’intervistatrice: “Ma non solo. Negli anni a far discutere c’è stato anche un rapporto dei Ros denominato “Mafia-Appalti”, considerato da molti il fattore di accelerazione delle stragi contro i due magistrati”.
“Era una indagine molto ben fatta, che conteneva elementi molto concreti. Non so che fine ha fatto”
di Alexander Bush