LA MEDIA E’ FINITA, NON L’OCCIDENTE: MILTON FRIEDMAN VERSUS PIERO OTTONE

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Dal libro di Pietro Ottone “Il tramonto della nostra civiltà” un’analisi spengleriana opposta all’analisi liberale di Milton Friedman

della fine dell’Occidente opposta Gennaio 2019: è molto probabile che la diagnosi di Sigmund Freud, un secolo dopo la fondazione della psicanalisi, sarebbe impietosa. L’occidentale medio non è capace di “andare al di là del principio di piacere” (dal titolo della sua opera fondamentale nel 1920). La Seconda Grande Depressione è caratterizzata intanto dalla prospettiva della secular stagnation, mentre i paesi mediterannei cosiddetti PIGS e quelli virtuosi del nord Europa si somigliano sempre di più nella descente aux enfers delle rispettive classi medie. Era il settembre del 1994 quando veniva dato alle stampe il più interessante testo scritto da Piero Ottone Il tramonto della nostra civiltà, dove il cosmopolita anglofilo Ottone proponeva la diagnosi organicistica di Spengler e Toynbee: ogni organismo vivente nasce, raggiunge la maturità della ratio contro la creatività irrazionale e folle dello sviluppo, decade e poi muore. E questo sarebbe il dark side dell’Occidente, destinato a estinguersi. Riporto integralmente le considerazioni dell’Ottone spengleriano nel capitolo Le gioie della vecchiaia, anticipando però che nella Weltanschauung ottoniana “E’ sciocco parlare di cause; è vano parlare di rimedi. Quanti bei discorsi si fanno nelle chiese, nei parlamenti, nelle riunioni conviviali, per additare la strada della rinascita: quanti buoni propositi di ridare solidità alla famiglia, di educare meglio i giovani, di convincere gli uomini che la strada dell’egoismo porterà al caos… Non mi pare che i sermoni diano grandi risultati. La gente ha poca voglia di ascoltare…”. Mi sia consentito di dissentire, anche se Il tramonto della nostra civiltà rappresenta il volume più lucido dello scomparso direttore del Corriere della Sera nell’elogio involontario della Mano Invisibile di Adam Smith, che attraversa buona parte del libro per quel miracolo o tragedia – a seconda dei punti di vista – che si chiama eterogenesi dei fini… La parola a Ottone, scomparso nell’aprile del 2017:

“Le gioie della vecchiaia – Oggi viviamo nel periodo della dolce vita, quando ciascuno cerca il massimo piacere con il minimo sforzo, e i divieti che possono ostacolare il godimento sono rimossi. Possiamo finalmente occuparci del presente: del nostro tempo, dei nostri problemi, soprattutto delle nostre prospettive. Certi giornalisti, dopo un lungo soggiorno all’estero (nel mio caso quindici anni) per osservare altri paesi, tornano in patria per osservare il proprio. Così noi, dopo avere preso in considerazione altri periodi della storia, e altre civiltà, possiamo ora occuparci del nostro periodo e della nostra civiltà, oggi. Se è vera la nostra lettura della storia, allora siamo in periodo di decadenza. La civiltà occidentale ha raggiunto il culmine, ricade su se stessa. Siamo al declino, siamo al tramonto. Che cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che quella frazione dell’umanità (circa un quinto) di cui facciamo parte, quella frazione composta di popoli abitanti in Europa ed emigrati in America, dopo avere dato prova per alcuni secoli di straordinaria creatività, dopo avere assoggettato i continenti, dopo avere inventato e plasmato un grande stile nelle arti, nella politica, nella finanza, nella tecnica, fino ad avventurarsi negli spazi extraterrestri, ora è stanca. Ha dato quel che poteva dare, non darà altro. Invecchia. Si avvia verso la fine. Ci vuole, per affermarlo, un certo coraggio. Non sembra forse, osservando determinati segnali, che siamo piuttosto all’apogeo della nostra storia? Gli uomini non hanno mai vissuto bene come oggi. Si è sconfitta la fame; si sono sconfitte le malattie; si vive più a lungo e più comodamente. Una miriade di individui, nelle case ben riscaldate e refrigerate d’estate, con l’acqua corrente calda e fredda, con il frigorifero ben rifornito, con la possibilità di ascoltare musica e assistere a spettacoli in ogni momento della giornata grazie alla televisione e alle videocassette, con l’automobile alla porta, gode di un tenore di vita superiore a quello di cui usufruivano, personalmente, personaggi di grande ricchezza e potenza, quali Carlo V o Luigi XIV. Non tutti vivono così bene, d’accordo; la maggior parte dell’umanità, anzi, è ancora in miseria. Ma è questione di tempo, dicono gli ottimisti: i progressi della tecnica, lo sviluppo dell’economia diffonderanno a poco a poco il benessere ovunque. Sembrano mirabili anche le conquiste politiche e sociali. Mai come adesso si sono rispettati i diritti umani. La democrazia si diffonde in tutti i continenti. Crollano i regimi dittatoriali. La solidarietà sociale conduce a forme di pubblica assistenza che proteggono gli strati deboli della popolazione dalle sventure della sorte, garantiscono sostentamento e cure mediche ai malati, ai vecchi e ai minorati, sostengono l’individuo, ogni individuo, “dalla culla alla tomba”. Come si osa parlare di decadenza di fronte a un quadro così entuasiasmante, di fronte a condizioni di vita così gratificanti? Quando mai l’umanità ha vissuto meglio di adesso?…”.

Piero Ottone non lo sapeva, ma dieci anni prima (nel 1984) i coniugi Milton e Rose Friedman avevano dato alle stampe la prima critica organica alla Teoria Generale dell’Occupazione di John Maynard Keynes, il bestseller titolato La tirannia dello status quo sulla crisi dell’Occidente: ad avviso dell’economista Premio Nobel che sconfisse Keynes a Bretton Woods nel 1944, non era affatto entusiasmante – per usare le parole di Ottone – il quadro di “forme di pubblica assistenza che proteggono gli strati deboli della popolazione dalle sventure della sorte, garantiscono sostentamento e cure mediche ai malati, ai vecchi e ai minorati, sostengono l’individuo, ogni individuo, “dalla culla alla tomba”; per Friedmam, fautore del laissez-faire, l’universalità dell’assistenza di ogni individuo “dalla culla tomba” era il cancro di cui soffriva l’Occidente, non l’apogeo della sua storia. C’era un’origine perversa, cioè la teoria costruttivistica: la convinzione errata che non sono gli individui a fare la società, ma è la società a fare gli individui proteggendoli dagli alti e bassi della sorte. Fatta la diagnosi, ecco la terapia: soltanto riaffermando il concetto di “rischio dell’individuo” liberato da ogni protezione solidaristica e da ogni legame edipico, l’Occidente potrà sopravvivere. Era il 1984, lo abbiamo detto, quando Friedman delineava la sua alternativa deterministica al “trentennio d’oro della civiltà keynesiana”; non fu ascoltato dall’establishment dei governanti occidentali ossessionati dalla prossima elezione, e la parentesi della Iron Lady Margaret Thatcher e dell’action man Ronald Reagan al potere è stata quella di stelle cadenti che squarciano provvisoriamente le tenebre. Ecco arrivare nel 2007 la catastrofe del Grande Crollo di Wall Street, una sezione della società civile. Ma la lezione del liberista Friedman ne La tirannia dello status quo è imperniata sulla irriducibile singolarità dell’individuo di fronte ai dolori e alle ferite dello “scandalo del reale” (Lacan), e si collega in prospettiva alle conclusioni darwinistiche rassegnate dall’ex amministratore delegato di Telecom Franco Bernabè nell’ottima intervista di Giorgio Meletti sul Fatto Economico nel 2013. Ci arriviamo per gradi. Occorre preliminarmente constatare che se Piero Ottone era organicista, Milton Friedman era invece un determinista. E ci lasciava qualche speranza: lo Stato non può salvare nelle magnifiche sorti e progressive della Great Society i propri cittadini assistendoli dalla culla alla tomba, e se si illude di doverlo fare con vocazione dirigista essi diventano irresponsabili tout court cercando il massimo piacere con il minimo sforzo; interi stati vanno così alla rovina, quando è l’autoregolamentazione dal lato dell’offerta l’unica uscita di sicurezza in un mondo che sicuro non è. Dalla Tirannia dello status quo:

“La Grande Depressione (1929, ndr) portò disoccupazione, code per il pane, fallimenti di imprese. Causò una perdita di fede nel sistema economico prevalente, che a sua volta condusse la maggior parte dei cittadini a unirsi agli intellettuali nell’assegnare allo stato un ruolo più grande. Il risultato fu il New Deal. Allo zio Sam prendere sulle proprie spalle tutte le preoccupazioni e le responsabilità del suo popolo sembrò un’idea splendida. Diversi paesi promulgarono ampi provvedimenti diretti a fornire sicurezza dalla culla alla tomba: indennità di disoccupazione, pensioni di anzianità, assistenza medica socializzata, aiuti all’infanzia e così via. Ma è una illusione pretendere di proteggere gli individui dagli alti e bassi della sorte… La verità è che nemmeno un governo forte e centralizzato può svolgere con successo queste funzioni. Il fatto è stato dimostrato innumerevoli volte nella forma più estrema, nei paesi comunisti come Russia e Cina, dove la dottrina marxista ipotizza che i cittadini si attengano al principio “da ognuno secondo le sue capacità a ognuno secondo i suoi bisogni”. Siamo convinti che lo sviluppo dell’intervento pubblico (tra il 1936 e il 1984, ndr) nei decenni precedenti e la crescente incidenza della criminalità nello stesso periodo siano in larga misura due facce della stessa medaglia. La criminalità è aumentata non malgrado lo sviluppo dell’intervento pubblico ma in larga misura a causa dello sviluppo dell’intervento pubblico. Due fattori ci sembrano più importanti, fattori che nei precedenti capitoli abbiamo associato alla crescita dell’intervento pubblico in generale. Il primo è un mutamento del clima di opinione, a partire dall’epoca del New Deal, circa il ruolo dell’individuo e il ruolo dello Stato. Questo mutamento ha spostato l’accento dalla responsabilità individuale alla responsabilità sociale. Ha incoraggiato l’idea che gli individui siano creazioni dell’ambiente e non debbano essere ritenuti responsabili per il loro comportamento… un numero sempre maggiore di giovani cresce senza valori saldi, con un’idea vaga di ciò che è “giusto” e di ciò che è “ingiusto”, con poche convinzioni che diano una disciplina ai loro appetiti”.
La requisitoria liberal-liberista del sociologo Milton Friedman annus horribilis 1984 si collega al quadro delineato nel 2013 dall’ex amministratore delegato della Telecom Franco Bernabè sul Fatto Economico al giornalista Giorgio Meletti: solo i giovani geniali emergeranno. Ne propongo la trascrizione riassuntiva, mentre l’Italia sta sfiorando il default: “L’unica cosa che si può e si deve fare è liberare le energie per la creazione di nuove iniziative. La tecnologia ha fatto sì che oggi le soglie di accesso alla creazione di un’impresa si sono molto abbassate. Le opportunità ci sono, anche in Italia, bisogna mettere i giovani in condizione di coglierle”. La replica di Meletti è puntuale:

“E se uno per caso non è creativo, non ha l’idea geniale, o semplicemente non vuol vivere con il coltello della competizione tra i denti, deve morire di fame?”. La risposta di Bernabè è tranchant:

“L’economista americano Tyler Cowen ha scritto recentemente un libro Average is over, che letteralmente significa “la media è finita”. Significa che non c’è spazio per galleggiare, il mondo è diventato terribilmente competitivo per il semplice fatto che in pochi anni la cosiddetta globalizzazione ha messo 500 milioni di europei in gara con tre miliardi di cinesi e indiani. E adesso sta esplodendo l’economia africana. E così, oggi chi non è creativo e competitivo starà molto peggio di chi non lo era trent’anni fa”. Giorgio Meletti: “Una classe dirigente che dice al popolo che viene diretto “scusate, è andata male, ognuno per sé e Dio per tutti” non è un grande spettacolo”. Risposta di Franco Bernabè: “Sta accadendo così in tutti i Paesi dell’Occidente. Negli Stati Uniti, ma in Israele e adesso addirittura in Cina, tutti i ragazzi vogliono diventare imprenditori. Hanno una visione diversa dai loro padri. Anche in Italia credo che siano molti più di quanto crediamo a desiderarlo, solo che qui mancano le condizioni…”. Ps – Il tramonto della nostra civiltà o la rinascita dell’Occidente? Il verdetto è aperto. Ma il cuore di chi scrive batte dalla parte di Milton Friedman. Certo è che se è vera la chiave di lettura data da Bernabè, accadrà che le persone medie verranno scannate come pecore in mezzo ai lupi mentre solo i geniali vinceranno. “Se vivi ogni giorno come fosse l’ultimo, prima o poi ci prendi: quel giorno arriverà. Se questo fosse l’ultimo giorno della mia vita, farei proprio quello che sto per fare oggi?”. Parola di Steve Jobs.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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