Un primo bilancio dopo i primi due anni di pontificato di Papa Bergoglio
Nella mia infinita presunzione, propria di chi sta procedendo nel vuoto e dedicandosi delle specie di selfie culturali, dopo aver dato la pagella a Renzi per il suo primo anno di governo mi accingo ora a darla anche a Papa Francesco per il secondo anno di pontificato. Che si svolge senza dubbio nel segno della simpatia e del consenso popolare, come del resto è avvenuto in modi regolarmente alterni nei pontificati che si sono succeduti nell’ultimo mezzo secolo, forse per assistenza dello Spirito santo, se ci si crede, o semplicemente per saggezza dei cardinali di Santa Romana Chiesa. Fatto sta che ci sono avuti: un Pio XII troppo introverso e troppo pavido, portato a fare gravi concessioni al nazismo e all’antisemitismo. Poi, invece, il Papa Buono e aperturista per eccellenza quale fu Giovanni XXIII, cui si reagì con Papa Montini, chiamato a restringere e a contenere gli slanci, poi di nuovo un tentativo di apertura con Papa Luciani, subito interrotto, ma ripreso nel medesimo senso da un Papa Wojtila che ha segnato il massimo di consenso, poi di nuovo ristretto da Papa Ratzinger, cui però va riconosciuto il merito di aver fatto “per coraggio il gran rifiuto”, ed eccoci, come appunto vuole l’alternanza, all’attuale Francesco, in veste di buonista, per non dire di piacione. Cui però mi sento di muovere un primo rimprovero. Un papa come lui, almeno in apparenza non soggetto a crisi mistiche, come mai si è azzardata a indire un anno santo senza averlo prima concertato con il governo italiano? Sa bene che non sarà la Città del Vaticano a dover sostenere l’urto dei milioni di fedeli richiamati dall’evento, bensì l’Italia tutta, e in primo luogo la disastrata Roma. Poco vale inveire contro la mafia se poi le si fornisce un’ottima occasione per condurre lauti affari.
Ma il rimprovero che in questo bilancio vorrei muovere a Papa Francesco è di essere stato concessivo ed aperturista a parole, a livello di prima pelle, ben attento però a non intervenire sui dogmi. Mi rendo conto che è un argomento delicato, e che inoltre dovrebbe essere escluso a chi come me si dichiara serenamente non credente, estraneo quindi alla Chiesa cattolica e ai suoi dogmi, ma da osservatore interessato, anche per l’evidente impatto che decisioni in merito hanno sulle pubbliche abitudini, mi permetto di chiedere perché mai non si abbia il coraggio di praticare due aperture. Uno dei tratti simpatici del nostro Francesco è stato quando, di ritorno dal viaggio nelle Filippine, e stravolto dalla marea di figli di nessuno di cui ha dovuto prendere visione, ha esortato le brave coppie di credenti a non fare come i conigli e a fermarsi al numero di tre figli e non più. Bene il senso pratico della proposta, ma perché non rafforzarlo appunto con un puntello dogmatico? Possibile che la Chiesa consideri peccaminoso il rapporto sessuale, e il relativo piacere, se non compensato da un intento procreativo? Perché non scinderlo da questo scopo con legame perseguito automaticamente? Trovo giusto che si predichi l’obbligo morale per le coppie di dare al mondo qualche figlio, ma si dovrebbe considerare una prescrizione del genere in senso globale. Giudichi cioè la coppia, in base alle risorse economiche di cui dispone, quale sia il numero di figli che può crescere come si deve, libera al di là di questo stretto impegno di gioire del rapporto sessuale, facendo anche ricorso ai debiti strumenti contraccettivi. Si pensi quale impatto liberatorio avrebbe un insegnamento del genere nei confronti dei paesi del sottosviluppo. La tutela della genitalità è doverosa dove questa sia messa a rischio da calcoli esosi ed egoistici, il che può capitare nei Paesi del benessere, ma non certo negli altri dell’indigenza. E dunque, affermazione, sì, di un obbligo morale a generare, ma con juicio, e sottraendolo dalla pretesa di un riscontro puntuale, per cui ogni accoppiamento dovrebbe comportare la nascita di un figlio.
E visto che siamo in materia, come si può permettere la Chiesa cattolica di escludere le donne dal sacerdozio? Un simile divieto non fa forse a pungi con la pur insistita e giusta proclamazione della parità di diritti tra i due sessi? Non ci sarà anche qui lo zampino della sessuofobia, cioè la pura che possa apparire in pubblico e dare scandalo una donna prete che si mostri incinta? Se invece un sacerdote consuma l’atto, la cosa non si vede. Sempre per restare in tema, sarei invece restrittivo sulla norma del celibato dei sacerdoti, mi pare che sia questo un punto che si risolve a vantaggio del cattolicesimo su altre fedi. Mi sono nutrito dei romanzi di Jane Austen, da cui risulta manifesto come per le fanciulle inglesi della buona borghesia tra Sette e Ottocento sposare un pastore anglicano fosse un buon partito, come sposare un medico o un avvocato. Ma un sacerdote che mette su famiglia, col relativo dovere morale di fare figli, è costretto a seguire una gerarchia, prima vengono i suoi, così comanda natura, poi tutti gli altri. Ovvero, il sacerdozio non è una professione bensì una missione, chi la assume deve accettarne anche i connessi sacrifici. Ma proprio perché questi sono onerosi, non si vede perché non si debba allargare anche alle donne il compito di sostenere questa croce.
Renato Barilli