Ma crediamo ancora che Keynes sia stato davvero un liberale?
Forse è una battuta polemicamente “tranchant”, e dunque efficace soltanto nella sua brillantezza superficiale , oppure è un’agghiacciante verità la ricostruzione fatta dall’editorialista einaudiano Alessandro De Nicola sul Sole 24 ore: “Da una trasmissione radiofonica della Bbc del 14 marzo 1932: “Cerchiamo di non sminuire questi magnifici esperimenti e di non rifiutarci di imparare da essi…Il piano quinquennale in Russia (Stalin ringraziava, ndr), lo Stato corporativo in Italia (Mussolini ringraziava, ndr);…La pianificazione di Stato in Gran Bretagna…Speriamo che abbiano tutti successo”. Parola di liberale. Liberale? Un utopista di tendenze autoritarie e scarsa capacità di previsione, semmai. Ebbene, signori, ecco a voi Lord John Maynard Keynes, il più importante economista del xx secolo, le cui idee ancor oggi, nel bene e nel male, influenzano le politiche economiche mondiali e la nostra vita di tutti i giorni.
D’altronde fu lui stesso che disse, con la consueta ironia, che gli uomini politici credono erroneamente di essere esenti da influenze intellettuali e invece sono di solito “schiavi di qualche economista defunto”…”. Se avesse ragione davvero De Nicola, saremmo in presenza della più grande tragedia epocale dall’“attrazione fatale” per il Capitale di Karl Marx che ha causato milioni di morti in tutto il mondo. Jacques Lacan, l’erede di Sigmund Freud, lo sapeva molto bene nell’uccidere “rasputinianamente” le nevrosi dei suoi pazienti: “Il guaio è quando si diventa prigionieri del sogno di un altro”. Tradotto: quando la collettività– per gli alti e i bassi della sorte – entra in gravi depressioni economiche, si affida sovente al sapere tecnocratico degli “snob aristotelici” come Trotzky, che esigono il culto della personalità nei loro confronti e manifestano una Weltanschauung pianificatrice della società: non sono gli individui a fare la società, ma è la società a fare gli individui o la “borghesia colta”. Nulla di più falso!
Gli esperimenti di ingegneria sociale del “paradiso in Terra” hanno un punto di fragilità intrinseca: il progresso non è il risultato di decisioni politicamente preordinate, ma al contrario della spietata eterogenesi dei fini che è l’antitesi esatta del costruttivismo ideologistico. L’ideologia, come d’altro canto la parola stessa suggerisce,è la fissazione di un’idea versus la dinamicità dello “scandalo del reale” (cioè i postulati teorici si dovrebbero aggiornare di pari passo con le emergenze contingenti che richiedono pragmatismo e non dogmatici costruttivismi societari).Ironia della sorte? Keynes, certamente il più brillante economista del xx secolo ma non il più grande, si convinse a tal punto che il “deficit spending”– ovvero la spesa pubblica in deficit – fosse “troppo grande per fallire” non nel breve termine (solo nel suddetto capitolo Keynes aveva davvero ragione da vendere!) ma a lungo periodo, da pagare la sua “presunzione fatale” e/o rimozione nevrotica della realtà con la morte per consunzione: cioè in pieno “delirio di presunzione” che nei pazienti psicotici si manifesta nel “cedimento sul desiderio” (sintomo umano per eccellenza della resistenza isterica al cambiamento)- Keynes non accettò la frustrazione della bocciatura da parted ei“contabili calvinisti” del Forum di Bretton Woods della presunta atemporalità divinatoria del deficit spending self-referent– immune alla resistenza del tempo –come paradigma governativo tout court. La spesa pubblica inflazionaria è una chimera utopica.
Alexander Bush