Cambiano i governi, ma quando cambierà la Rai?
Aiuto, forse ci siamo persi la riforma della Rai. Ma dov’è finita? Ah già, il governo Renzi l’ha programmata perché entri in vigore fra tre anni, e intanto ha fatto man bassa con le vecchie regole della legge Gasparri. Che prevede quanto segue: la Commissione di Vigilanza elegge sette consiglieri mentre altri due, tra cui il presidente, sono indicati dal ministero dell’Economia. E chi nomina la Commissione di Vigilanza? I partiti. Quanto al ministero dell’Economia, quella è cosa del governo. Soltanto i soldi, quelli sì ce li mettono i cittadini.
E però – si sono affrettati a mettere in rilievo politici e mass-media – che diamine, questa volta sono stati nominati al vertice due personaggi di indiscutibile professionalità: la presidentessa Monica Maggioni (che ha il grande pregio di essere donna) e il direttore generale Antonio Campo Dall’Orto (che compensa lo svantaggio di portare i calzoni con vantate capacità manageriali). Quanto ai consiglieri d’amministrazione, alcuni hanno esperienze televisive e altri no, tutte compensate in ogni caso da sicura affidabilità politica (lottizzata, vedi sopra).
Benissimo, complimenti, si vedono i risultati. Provatevi a sintonizzare la tv su di un qualsiasi telegiornale Rai: se non vi imbattete in Renzi che parla, troverete qualcuno che parla di Renzi, o un servizio in cui si riassume ciò che altri dicono di Renzi, le battute e le nuove metafore di Renzi, i tweet di Renzi, le visite all’estero di Renzi, le direzioni del Pd in cui si discute di Renzi, i nuovi dati economici che provano l’efficacia del governo Renzi. Se nessuno di questi servizi è in onda, significa che è già incominciato il rosario delle Yara e dei Bosetti, degli sbarchi di migranti, delle allocuzioni di Bergoglio, o se Dio vuole le previsioni del tempo.
Ma se questa è la professionalità della nuova Rai, l’unica notizia sicura è che l’emergenza democratico-giornalistica è seria, e tale resterà per i prossimi tre anni. Già, e dopo? Be’, dopo partirà la grande riforma: i componenti del consiglio di amministrazione passeranno da nove a sette, quattro eletti da Camera e Senato, due nominati dal governo e uno designato dall’assemblea dei dipendenti, .e tra questi verrà eletto un «presidente di garanzia», che dovrà poi ottenere il parere favorevole della Commissione di Vigilanza. Epocale cambiamento: tutto non potrà non restare che uguale a se stesso, con una Rai arroccata intorno ai suoi tredicimila dipendenti, con un costo medio di 77 mila euro, con i suoi programmi provinciali e faziosi, con i sduoi debiti ripianati e la sua svalutazione costante in termini di alleanze e diritti.
Qualcuno, come una vecchia litania, a questo punto invocherà la BBC inglese. Io invece direi che sarebbe ora di pensare a una soluzione americana: privatizzazione della Rai e una nuova legge antitrust, con sanzioni penali e non solo amministrative, per assicurare concorrenza e reale pluralismo; nascita di un’azienda non-profit sul modello del PBS americano (Public Broadcasting Service) in grado di gestire trasmissioni riguardanti scienza, tecnologia, cultura, medicina, salute, natura, storia, geografia, società, arte, teatro eccetera, sia su canali digitali che satellitari, in modo da coprire l’intero territorio italiano ed europeo. Come il PBS, questa azienda non dovrà autoprodurre programmi, ma commissionare ed acquistare sul mercato quelli ritenuti adatti al servizio pubblico.
I suoi finanziamenti saranno in parte garantiti dallo Stato, attraverso un ente pubblico controllato dal Parlamento; in parte da donazioni di privati e organizzazioni (i cui nomi potranno essere riportati all’inizio di ogni programma); in parte dalle quote associative di reti televisive, libere di utilizzare in tutto o in parte i programmi pubblici.
Che ne dite, un po’ meglio di Techetechetè?
Dario Fertilio