Non pure una volta, nei trascorsi decenni, è stata adottata una forma di “rimozione di Croce” dalla cultura italiana letteraria, storica, filosofica, etico-politica. Ci riferiamo alla disposizione organicistica indicata da Palmiro Togliatti, leader del più importante partito comunista in paesi occidentali (insieme con il francese ), di non nominare più il filosofo in alcuna sede accademica e pubblicistica; ma anche al rifiuto da parte di Vito Laterza di pubblicare sistematicamente opere del Croce né di suoi interpreti e prosecutori; e all’opera di Michele Abbate, La filosofia di Croce e la crisi della società italiana, di einaudiana memoria ( opera cui avrebbe dovuto esser affidata la sanzione di “arretratezza” culturale e civile del pensatore della “religione della libertà”). A guardar meglio, tuttavia, si sono tentate almeno altre due “vie” di superamento, quando non di denigrazione, del lascito crociano: lo “sbarco su Croce” ( la dizione è di Raffaello Franchini ); e la erezione di “cortine fumogene” ( le “polveri sottili” dell’ ermeneutica variamente esperita ), ad occultare effettiva portata, dimensione filologica e storica, e incidenza ancora attuale, quindi, della medesima opera.
Procedendo per tappe essenziali, sul versante della “ricezione-non ricezione”, e cioè dei momenti in cui si è sempre tentato di mettere da parte o invalidare quanto dell’ opus crociano potesse risultare ancora scomodo e ingombrante, esempi di quel che chiamiamo lo “sbarco su Croce” possono ben ritenersi la coniazione di Matrici culturali del fascismo, prodotta dalla “école barisienne” nel 1977 ad assurdo beneficio di scuole, accademie e istituti, secondo cui il preteso “provincialismo”, la “separatezza dell’intellettuale”, insieme con la invalidazione della scienza e dell’economia, avrebbero immancabilmente caratterizzato la filosofia neo-idealistica, preparando il terreno d’incubazione e consenso per il regime fascistico; oppure l’attacco del senatore Giulio Andreotti, trasversalmente carezzato e ospitato, a cinquant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali, e dunque nel 1998, che addebitava al Croce la assenza in Senato il giorno del tragico dibattimento sul tema. L’attacco fu ripreso addirittura da Claudio Magris sul “Corriere” in termini alquanto aspri
( Fascismo e dintorni. Croce, Giove e il bove, 6 luglio 1998 ): cui rispondemmo con eleganza documentata dalle fonti in pochi, da Gennaro Sasso e Leo Valiani a chi scrive.
La terza forma, più sottile e insidiosa, di ripetuta, tentata invalidazione della classicità di Croce, svaria da operazioni di “attaccapanni” ( come Raffaele Colapietra usava dire a proposito delle appropriazioni di Salvemini), ad esempio nelle informative letterarie d’intorno al 1995 di Enzo Siciliano, Massimo Onofri o Bruno Gravagnuolo sull’ “Unità”; sino alle reiterazioni di un Croce “liberale inautentico”, estrapolate da Norberto Bobbio del 1955 e rilanciate da Giuseppe Bedeschi, Sergio Ricossa e altri ripetitori, “pontefici minimi”, di “filosofia minima”; per attingere i vertici della disinformazione esegetica, con l’occultamento della lezione dell’autonomia dell’arte nelle grandi pagine europee delle poetiche modernistiche del novecento ( Joyce, Beckett, Eliot su tutti ).
Qui le “cortine fumogene” diventavano il fitto “nebbione” della “nessunità” ( come per Ulysses e Finnegans Wake, ove venivano obliterate la distinzione tra “personalità poetica” e “personalità pratica” di un Autore quale Shakespeare in Biblioteca, la teoria della circolarità dello spirito umano, la dottrina della tetrade e della storia, rivisitate con insistenza nelle quattro regioni di Dublino e dell’Irlanda o nei quattro evangelisti del Book of Kells e nei corsi e ricorsi storici dell’umanità, sognata dall’oste di Dublino ). Ma dal “nebbione” dell’occultamento ermeneutico, sistematicamente perseguito o dettato, emergevano colpi di scimitarra ( di cui si rendeva principe il semiologo Umberto Eco in ogni pubblica occasione, seminario e convegno che fosse, Bloomsday o altra accademica investitura ), non appena si osasse pronunziare il benché minimo cenno ai riconosciuti prestiti di Vico e Croce o a Poesia e impoesia nell’ Ulisse di Joyce di Francesco Flora ( Nuova Accademia di Milano, 1960 ).
Guardiamo (come è evidente) non tanto alla storia delle interpretazioni crociane ( da Carlo Antoni a Nicola Matteucci, Alfredo Parente e Raffaello Franchini, Gennaero Sasso e Giuseppe Galasso, Rosario Assunto o Vittorio Stella, per tacer d’altri), storia di una vicenda complessa e tenace in altre sedi ermeneutiche doverosamente ordinata; quanto, piuttosto, ai punti d’impatto ( condivisi o più spesso negati ) dell’influenza di Croce sul terreno civile, là dove si son formati e tuttora si formano il sentire comune, il metodo di lettura della realtà storica, la educazione stessa dei giovani: in una parola, all’accordo della mente con l’animo di cui parla Croce nella Storia del Regno di Napoli e altri luoghi espressivi della religione della Libertà.
Le risposte alla più o meno sofisticata operazione censoria su Croce erano, e restano, difficili: per dire, dai referendum sulla “giustizia giusta” o sull’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti (vinti sulla carta, in gran parte vanificati nei conseguenti fatti storici o giuridici) ai Comitati per le Libertà, dalla “Rivista di studi crociani” a “Nord e Sud”, dal Centro “Mario Pannunzio” di Torino alla “Fondazione Spadolini” di Firenze, dalla Università “Vico” di Andria alla Casa Rubbettino di Soveria Mannelli alla L.U.I.S.S. “Guido Carli” di Roma con la scuola di Dario Antiseri e Lorenzo Infantino; dalle tradizioni tranesi della Biblioteca “Bovio” e Valdemaro Vecchi all’Istituto “Bruno Leoni” e all’ Istituto Storico per il Pensiero Liberale di Siena.
Non sappiamo qual via stian ancora per prendere gli eventi, in Italia e in Europa e nel mondo, per le sorti della libertà. Certo, ogni cosiddetto “Grande giuoco” non riesce a efficacia conclusiva, per le conseguenze non volute di azioni umane intenzionali (Hayek) e per il suo frantumarsi in mille giuochi particolari, corporativi e personali: dal momento che la Libertà “ha per sé l’eterno”, come insegnava Croce, non dovendo mai chiedersi “dove va il mondo”, per adeguarsi con “viltate” al presunto corso storico (1933).
Il “fiume carsico del liberalismo” può sempre riemergere a nuova vita, non da “anime belle” tuttavia. Perciò, la “teoria della previsione” va riscoperta e attualizzata; le consorterie, contestate; il fanatismo, denunziato; una forma d’alleanza laica (non laicistica), ricomposta. Qualunque intesa di poli, o case, della libertà non regge senza sostrato culturale, filosofico, etico-politico: sostrato che non può, secondo me, ritrovarsi e confermarsi altrimenti che nella crociana “religione della libertà”. Frequentino pur le biblioteche, e non i talk-show, i vari, veri o presunti, leaders del movimento liberal-riformista (come nel ’68 dello scorso secolo il trascinante Francesco Compagna indicava ai giovani di frequentar meno assemblee, e di più i luoghi di studio).
E nelle Horae subsecivae potremo sempre tornare alla filologia, al lavoro di scavo, allo studio di documenti e testi inediti del maestro di color che sanno !
Giuseppe Brescia