Un ritratto di certi funzionari italiani all’estero, e non solo all’estero!
Con passo affrettato supero i due lunghi corridoi tappezzati di rosso che danno il benvenuto agli illustri ospiti dell’università di Kiev, ornati da entrambi i lati dai ritratti di tutti i rettori dell’università che sporgendosi dai rispettivi quadri paiono rivelarti un tratto della propria umanità del tempo in cui furono e che ne contraddistinse i turbamenti personali e sociali. Il ritardo mi opprime: offre un concerto la consorte dell’ambasciatore d’Italia. Già intravedo alla fine della rampa, al secondo piano, l’imponente aula adibita ad auditorio musicale. Mi sento rasserenato per un frangente. Sì, presenziare, anche se per poco a quel concerto, oltre alla sublimità della musica barocca italiana, significa essere finalmente onorati di avvicinare alcuni personaggi dell’ambasciata, poter discorrere con loro, chiedendo loro conto del motivo per cui, a differenza delle altre ambasciate europee, essi ignorino tutti gli italiani impegnati all’estero che non siano giunti tramite investiture ministeriali.
Le mie intense riflessioni sono d’un tratto interrotte da una fragorosa risata! La porta dell’auditorio si spalanca, un trio allegro si precipita verso l’uscita. Riconosco a malapena il celebre attaché, attaccato al suo posto da almeno un ventennio. Nel mezzo, scorgo una dama, non particolarmente imponente nel portamento, con un omaggio floreale tra le mani. Il terzo incomodo è, come tutti sanno a Kiev, il braccio destro di un noto professore … faccio appena in tempo a scambiare un saluto accennato e di rito con quest’ultimo, la cui non-presenza ha segnato diverse tappe del mio cammino professionale.
Ho da poco lasciato l’imponente edificio rosso pompeiano, in forgia neoclassicheggiante, alle mie spalle: quel tempio, simbolo della cultura e del sapere ucraini. Sono da poco calate le tenebre in quel tardo pomeriggio d’autunno. Mi accingo ad attraversare il maestoso boulevard che separa i comuni mortali dal sontuoso parco, un tempo imperiale, su cui domina, con fare pensoso, il sommo vate ucraino. Nel luccichio serale, la figura statuaria di Ševčenko, sembra osservarmi dal magnifico e omonimo parco.
Una loquacità e un tono vocale inconsueti per l’Ucraina ma a me familiari mi attirano. È il terzetto italiano a cui avevo volto il mio vano saluto alcuni minuti prima. Lì osservo per qualche istante. Essi non ricambiano la mia attenzione, assorti nel loro scambio di battute facete! La donna in scuro con un bouquet di rose bianche pone dei quesiti ai due pavoneggianti accompagnatori: uno più attempato negli anni ma giovanile nei modi che, forse grazie anche ad alcuni accorgimenti cosmetici ed estetici ben dosati, nasconde la sua annosità “culturale”. L’altro, un trentacinquenne italianizzato nelle maniere, il quale sembra essersi giovato degli elisir d’amore, rivitalizzandosi come il suo maestro e tutore.
Si avvicinano a un elegante e confortevole fuoristrada color pece dai vetri offuscati che a stento si distingue dall’asfalto inumidito. Il giovane sussurra qualcosa alla donna narcotizzata dal suo successo musicale, il mentore partecipa compiaciuto alla conversazione. Aggiungono qualche altra battuta. D’un tratto, dimenandosi pittorescamente con indicibile gioia, con le tipiche movenze di un vitellone italiano di altri tempi, il silenzio della strada è infranto di nuovo da quella fragorosa risata emessa da una smorfia del volto simpatica e familiare: in essa si legge il benessere incurante e smodato, la superiorità presunta di una generazione di parassiti che ha saputo cogliere il meglio del sistema Italia e a cui degli altri, in verità, non importa niente!
Salvatore Del Gaudio