La sinistra e il festival di Sanremo

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Come si pone la sinistra di fronte al consumismo?

Se ne sentiva la mancanza. Di una riflessione a tutto campo e senza paraocchi sul consumismo culturale. Bene ha perciò fatto la rivista cattolica “Paradoxa”, diretta da Laura Paoletti, ad affidare un numero monografico, l’ultimo uscito, a Dino Cofrancesco per mettere a fuoco i termini del problema (Consumismo culturale: la sinistra ci ripensa?, anno VIII, numero 3, luglio-settembre 2014). Cosa quanto mai opportuna per prendere poi posizione in modo avveduto.
Cofrancesco, in verità, nel suo intervento introduttivo, molto acuto, offre un’analisi spregiudicata, cioè senza pregiudizi, più che del fenomeno in sé, del rapporto che con esso hanno intrattenuto, nel corso degli anni, le forze culturali e politiche del nostro paese. Ed è questo in sostanza il leit motiv del fascicolo, anche se poi i temi più generali sono per forza di cose toccati e analizzati. Paolo Bonetti si occupa così della sinistra comunista e post-comunista, Sergio Belardelli della cultura cattolica, Marcello Veneziani dell’analisi che della cultura di massa ha fatto Augusto Del Noce e Giuseppe Bedeschi della classica critica dell’industria culturale svolta dalla Scuola di Francoforte (in particolare da Adorno e Horkheimer nella loro Dialettica dell’illuminismo, 1947). Sotto la veste, forse fuorviante, di “cronache da una giornata di studio”‘ una ricca e molto stimolante trattazione di temi e problemi, classici ma soprattutto nuovissimi, è poi nel lungo contributo finale di Mario Aldo Toscano,
Per ovvi motivi, ci limitiamo qui a discutere il saggio del curatore, anche per la sua veste teorica e per l’originalità della tesi avanzata. Prima del consumismo culturale c’è il consumismo tout court, che la sinistra intellettuale ha visto sempre come il fumo negli occhi. E direi che continua a farlo, in una misura maggiore forse di quanto Cofrancesco creda. Secondo lui, in effetti, posizioni come quelle di Bauman da un lato o dei teorici della decrescita felice dall’altro, sono minoritarie. E, comunque, pertinenti al mondo intellettuale e non incidenti nella politica culturale effettiva della sinistra. La quale si sarebbe del tutto riconciliata con la società dei consumi e penserebbe non più ad una alternativa di sistema al capitalismo, come era in Marx, ma ad una diversa e più eguale distribuzione delle ricchezze fra i cittadini. Una riconciliazione simile si sarebbe svolta, appunto, negli ultimi decenni, al livello di quella sottospecie del consumismo che è la cultura di massa (da non confondere con la tradizionale e “saggia” cultura popolare del vecchio mondo contadino amato da Pasolini). Essa si esplica, non solo attraverso libri e giornali, ma anche nelle canzonette, nei film, nell’intrattenimento, televisivo e non, e oggi anche nei videogiochi. Ciò che la sinistra ha abbandonato, in sostanza, è l’idea, che potremmo definire pedagogico-moralistica, di portare la cultura “alta” alle masse. Ma messa in discussione è stata, più a fondo, l’idea stessa che esistessero due culture, una “alta” e l’altra plebea, gerarchicamente ordinate. Si è pensato che la cultura di massa andasse in qualche modo non demonizzata (come accadeva in Pasolini, che non esitava a parlare di “degradazione antropologica”), ma colonizzata. In questa prospettiva, gli intellettuali devono avvicinarsi alle masse non per educarle ma per assecondarne i gusti e immettere nella loro cultura dosi omeopatiche dei valori politici progressisti. Si è così messo in atto un processo di politicizzazione all’ombra della leggerezza. Iniziata con l’azione teorico/pratica svolta a sinistra, partire dai primi anni Ottanta, da Gianni Borgna (ma io avrei fatto anche i nomi di Renato Nicolini e, su un versante più accademico, di Alberto Abruzzese), questo processo avrebbe trovato il proprio culmine nell’ultimo festival di Sanremo. Quanta differenza fra i due conduttori, Fabio Fazio e Luciana Litizzetto, e predecessori come Nunzio Filogamo e Pippo Baudo! In ogni caso, per Cofrancesco, con la nuova politica culturale “si sdogana il ‘consumismo culturale’, ma pagando il prezzo della scomparsa del terreno dell’evasione, del puro divertissement di chi vuole trascorrere un’ora di svago senza porsi il problema dei ‘diversi’, dei governanti corrotti, delle vittime del disagio sociale e dell’esclusione”. Paradossalmente, le vecchie ideologie impegnavano in maniera forte ma si arrestavano di fronte all’evasione e al divertimento puri. Oggi, al contrario, seppure in maniera soft e meno “impegnativa”, si assiste ad una politicizzazione anche di questi ambiti: la politica non ha più toni fondamentalisti come in passato ma s’infila, a poco a poco e inavvertitamente, dovunque”.
L’esproprio del tempo libero e dell’evasione, la panpoliticizzazione della vita, non può che preoccupare un liberale. Molto più del consumismo culturale, che comunque per realizzarsi ha bisogno dell’assenso del consumatore, non agendo in modo unidirezionale (cioè solo e semplicemente per induzione del consumatore da parte del Mercato) come credevano i francofortesi. E che comunque offre una quantità di prodotti non sempre malvagi (si possono fare “prodotti di cassetta” che sono capolavori artistici) e anche di nicchia. Cofrancesco riporta due giudizi, espressi rispettivamente da Sergio Ricossa e Luigi Firpo, che mi sembrano molto esplicativi: “il mercato -scrive Ricossa- è tentatore, benché non obblighi nessuno; ma è anche neutrale, perché tenta in tutte le direzioni”. Se la critica al capitalismo tira, il mercato, se si è in un regime libero, subito segue la scia, senza preoccuparsi della pericolosità (in effetti molto remota) che certe tesi possono avere per la sua sopravvivenza. Ancora più esplicito Firpo: a Pasolini che lamentava l’esplosione “selvaggia” della cultura di massa, egli osservava che una “cultura non selvaggia è una cultura pianificata, una cultura asservita; anche l’ultimo settimanale languoroso, scandalistico-pornografico, è pure un progresso per chi non leggeva che didascalie di santini o cartoline precetto. Meglio una cultura di massa selvaggia ma libera, che una cultura ‘civilizzata’ dai ministri e dalle censure”.
Come si vede, tante le questioni sollevate da “Paradoxa”. Ovviamente, una soluzione univoca di esse per fortuna non esiste. Per esempio chi scrive crede che la cultura possa esprimersi in qualsiasi forma o mezzo, soddisfare palati raffinati e non, ma che comunque debba istillare dubbi: sul mondo, sugli altri, ma anche e direi soprattutto su stessi. Ma sarei molto restio a patrocinare “politiche attive” per raggiungere questo scopo. Penso che lo si possa raggiungere meglio stando attenti a che le possibilità di scelta siano tante e effettive, accessibili a tutti. C’è un punto in cui la quantità, parafrasando Friedrich Engels, si converte in qualità. Ma di questa il miglior maestro per noi stessi siamo proprio noi stessi. La cultura si fa soprattutto, direi esclusivamente, da autodidatti. Più il mondo dell’offerta è vario (e anche avariato, per dirla con quel grande maestro di scetticismo e antiperfezionismo liberale che risponde al nome di Antonio De Curtis in arte Totò), più le possibilità di crescita culturale per l’individuo aumentano.

Corrado Ocone

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