La spregiudicatezza di Grasso

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Le mosse di Grasso giudicate da un vero liberale

Grazie a Pierluigi Bersani – a mio avviso uno degli sfascisti più catastrofici della storia italiana (e della sinistra) di questi anni – una legione di pretoriani è riuscita in un’impresa che sarebbe stata impensabile nella Prima Repubblica democristiana, quella di ‘piazzare’ alle tre più alte cariche dello Stato—Quirinale, Montecitorio e Palazzo Madama—tre presidenti di parte, nessuno dei quali concordato con l’opposizione. Il fair play ormai è un lontano ricordo: il leone non si riserva la parte più grossa (quia est leo) ma prende per sé tutto il mazzo sapendo di poter contare sulla maggioranza dei voti.
Vedendo le mosse di Pietro Grasso di questi giorni, il suo grande elettore può ben dirsi soddisfatto. La prima performance fu l’estromissione dell’ex Cavaliere dal Parlamento grazie all’imposizione del voto palese: una autentica vergogna, giacché si è impedito il voto segreto per sfiducia nella propria base parlamentare – se nessun senatore del centro destra, infatti, avrebbe votato contro Berlusconi, non pochi senatori di sinistra avrebbero potuto obbedire alla loro coscienza e votare a suo favore, senza attenersi alle direttive dei gruppi parlamentari.
Ora si è avuta la seconda, con la scomunica pubblica del PD renziano e la restituzione della tessera. Sennonché quella tessera Grasso non avrebbe dovuto restituirla nel momento dell’elezione alla presidenza del Senato, come gesto simbolico e impegno a tenersi, nell’esercizio dell’alta carica, super partes? In passato, non tutti i titolari delle tre più alte cariche dello Stato hanno dato prova di ‘stile’, è vero: non hanno abbandonato i rispettivi partiti né Casini, né Bertinotti, né Fini. Sennonché, a parte il fatto che, nello svolgimento delle loro funzioni, Casini, Bertinotti e Fini hanno cercato di far dimenticare le aree politiche di provenienza (persino Gianfranco Fini – come dimostra il libro non simpatizzante che gli ha dedicato Paolo Armaroli – come presidente della Camera non ha demeritato), nessuno dei tre ha fatto sentire la sua voce per delegittimare pesantemente un partito, dicendo agli Italiani che il vero PD non è quello che pretende di essere tale, ma quello del suo ‘benefattore’ Bersani.
Intendiamoci, nessuno vieta a Grasso di scendere in campo – un liberale è decisamente contrario non soltanto al mandato imperativo, ma anche a leggi che impediscano agli eletti del popolo di cambiare casacca – ma non può farlo senza deporre nell’armadio la giacca nera dell’arbitro per indossare la maglietta del giocatore. Mi rendo conto che a ragionare in termini di buon gusto e di correttezza etica in un periodo in cui conta solo il reato accertato dal tribunale e la colpa morale è relegata, come il peccato, nella privacy, si corre il rischio di abbaiare alla luna, ma ricordare i codici del ‘mondo di ieri’ forse può configurarsi come un nuovo dovere civico.
In questo mondo di iene e di sciacalli, è passata inosservata una notizia alla quale ha dato ampio risalto domenica scorsa il quotidiano ‘Libero’ con un articolo di Renato Farina, Sostenere Grasso per colpire Renzi. La tentazione(pericolosa) del Cav. Farina è un giornalista che non mi piace: il suo antirisorgimentismo, il suo tradizionalismo cattolico quasi lefevriano, il suo eccessivo gusto per il politicamente scorretto sono irritanti, almeno per un liberale ottocentesco come me, ma la sua denuncia di un centro-destra pronto, su ordine di Berlusconi, «a far di tutto, pur di facilitare la caduta di Renzi, allo scopo di favorire il consolidamento politico del presidente del Senato alla testa di una sinistra di sapore comunista e giustizialista» me l’ha fatto apparire come il protagonista del Rinoceronte di Ionesco, l’unico ad essersi mantenuto lucido in una congrega politica resa fin troppo euforica dal voto siciliano. Giustamente Farina ha ricordato il Kaiser che nel 1917 finanziò la rivoluzione bolscevica, Carter che nel 1979 armò Bin Laden per sconfiggere i sovietici in Afghanistan.« Così non va—ha rilevato—Non è roba liberale, non è lealtà, non porta bene la logica comunista del tanto peggio tanto meglio».
Non è solo questione di lealtà, tuttavia. Ammettiamo pure che la sinistra antirenziana riesca a spaccare l’attuale PD e che, accanto al vecchio, se ne formi uno nuovo—in sostanza, una riedizione di Rifondazione comunista—di pari entità, quale vantaggio ne trarrebbe il paese? Se assieme—ipotesi dell’irrealtà—i due tronconi della sinistra ottenessero la maggioranza dei seggi parlamentari, che probabilità avrebbe il vecchio di impedire al nuovo di cancellare le poche leggi buone fatte nella breve era renziana? E se il partito antirenziano—rafforzato anche dalla desistenza berlusconiana– potesse far maggioranza col M5S, non sarebbe il trionfo del giustizialismo più disinibito e non comporterebbe per l’ex Cavaliere la ricerca di una sua Hammamet?
Renzi gioca (malamente) la carta del riformismo socialdemocratico, il centro-destra gioca (o dovrebbe giocare) la carta del riformismo liberale: nemici oggettivi di entrambi sono gli antiriformisti della destra populista e della sinistra neo-massimalista—contro i quali potrebbero essere costretti, centro-destra e centro-sinistra, a coalizzarsi un domani non lontano.

di Dino Cofrancesco

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Dino Cofrencesco
Dino Cofrancesco è uno dei più importanti intellettuali italiani nel campo della storia delle dottrine politiche e della filosofia. E' autore di innumerevoli saggi e tra i fondatori dei Comitati per le Libertà. Allergico all'ideologia dell'impegno, agli "intellettuali militanti", ai profeti e ai salvatori del mondo, ai mistici dell'antifascismo e dell'anticomunismo, ha sempre visto nel "lavoro intellettuale" una professione come un'altra, da esercitarsi con umiltà e, nella misura del possibile, "senza prendere partito". Per questo continua, oggi più che mai, a ritenere Raymond Aron, Isaiah Berlin e Max Weber gli autori più formativi del '900; per questo, al tempo dell'Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, si schierò, senza esitazione, dalla parte della storiografia revisionista, senza timore di venir accusato di filofascismo.

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