Cos’è rimasto dell’Europa sognata dai grandi europeisti del secolo scorso? Intanto prosperano i politici di piccolo cabotaggio italiani
L’Unione Europea si sfarina. La condanna all’ergastolo del generale Ratko Mladic marchia il comandante serbo-bosniaco che a fine Novecento combatté con metodi brutali per il suo popolo una battaglia della guerra lunga secoli. Al tempo stesso mette a nudo l’ipocrisia dell’“Europa” (dov’era?), della Nato (innocente?) e dell’ONU. Perché nulla avviene a caso, la sentenza arriva proprio mentre l’“Europa” è al minimo di credibilità. In tempi recenti, essa resse su alcune leggende, narrazioni e costose quanto inutili esibizioni, come quella di Renzi, Merkel e Hollande a Ventotene: cinico sfruttamento della memoria di Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e del sopravvalutato Altiero Spinelli. Di quella sceneggiata non rimane nulla. Con Macron e Brigitte la Francia è al terzo presidente consecutivo da romanzo ottocentesco. In Germania la prussiana Merkel si sta rendendo conto che non basta accarezzare il pelo ai turchi per tranquillizzare gli europei, tedeschi in testa. Quanto all’Italia, Renzi sopravvive segretario del Partito democratico solo perché i pretendenti a reggere i cordoni delle sue esequie politiche sono ancora più dei quattro previsti dal macabro cerimoniale.
Mentre l’Europa svapora e il vituperato Vladimir Putin si afferma erede dello zar Alessandro I di Russia (torna a occupare militarmente anche le basi artiche più avanzate dell’antica URSS), l’Italia annaspa. Non per il bilancio d’esercizio, i cui conti non tornano mai e verranno ancora una volta sforati, ma per il debito pubblico, che da anni cresce inesorabilmente. Nei sei mesi ulteriormente concessici per estrema carità dall’“Europa”, esso s’impennerà per l’imminente caccia al voto a suon di erogazioni straordinarie. Lo sforamento dei 240.000 euro annui al Parlamento è il primo segno che il coperchio delle mance sta per alzarsi. Alla verifica di maggio ci troveremo più indebitati di adesso e con la necessità impellente di misure drastiche. Tassato il tassabile e molto oltre, non rimarrà che la patrimoniale secca: incubo invano esorcizzato in anni durante i quali i governi hanno comunque taglieggiato beni e risparmi con misure tanto inique quanto inefficaci.
La burocrazia rimane e sarà qual fu: stupida. Una selva di leggi, decreti, circolari. Un groviglio di poteri e poterucoli. Stato, regioni (non tutte “speciali” ma comunque costose e invadenti), province (oggi ridotte alla Giara di Pirandello), comuni monocratici, spesso arroganti e al tempo stesso paralizzati nella facoltà di spesa. Se l’Italia davvero volesse voltar pagina dovrebbe eliminare almeno quattro-cinquemila comunelli che appagano vanità, non esprimono volontà e riducono le capacità. In tante valli alpine e appenniniche, in vaste plaghe pianeggianti ogni comune dovrebbe includere una dozzina di quelli attualmente esistenti. La potatura degli “enti territoriali autarchici” manifestamente superflui fu tra i meriti dimenticati del “ventennio”. Quella era un’operazione da proseguire, statistiche demografiche alla mano e con responsabile confronto costi/benefici tra popolazione, uffici e servizi. L’avvento dell’informatica rende del tutto obsoleti confini amministrativi che risalgono al medioevo. Ma il nostro rimane il Paese che si appassiona al trasloco di un comunello da una all’altra regione e sogna una, cento, mille Seborga, ciascuna con la sua moneta e le sfilate in fantasiosi costumi d’antan. Né si accampi la difesa della “democrazia”, quando si constata che alle urne ormai va solo il 30-40% degli aventi diritto.
Chiudere gli occhi dinnanzi alla gracilità delle Istituzioni significa concorrere a disfare quanto resta dell’Italia.
di Aldo A. Mola