Non diamo sempre la colpa al fato o alla natura: in questi casi anche errori, imprevidenze e scelte ideologiche hanno il loro peso
L’attuale carenza d’acqua è senz’altro dovuta all’eccezionale periodo di siccità dovuto all’innalzamento progressivo della temperatura, quali ne siano le ragioni, ma la relativa crisi idrica era prevedibile e annunciata.
Nel non lontano, ma già spesso dimenticato, 2016, vi fu un “famoso” referendum nazionale sulla liberalizzazione della distribuzione dell’acqua. Vi fu una rabbiosa battaglia contro quest’iniziativa, che proponeva di liberalizzare non, occorre precisare, l’acqua, ma semplicemente la sua distribuzione.
La reazione da parte di estrema sinistra, ecologici, arcobaleni vari, 5Stelle fu furibonda e si concluse con la vittoria dei “no”: la distribuzione doveva rimanere pubblica perché l’acqua è un bene di tutti e quindi nessuno può disporne…
Una classica motivazione di tipo statalista e collettivista che portava acqua (è il caso di dirlo) al mulino di tutte quelle società partecipate, (cioè comunali o statali o regionali) che gestivano e avrebbero continuato a gestire la distribuzione dell’acqua in Italia.
Lo slogan di battaglia era: “Acqua di tutti per tutti!”, con l’ovvio corollario “a prezzi da paese sovietico”.
A distanza di pochissimo, solo tre anni, ecco il risultato:
- gli invasi e le dighe di raccolta sono in stato di abbandono
- le tariffe per l’acqua negli ultimi dieci anni sono aumentate in Italia in (media) del 95,8% e nel resto dell’Europa (dove la distribuzione è affidata a gara) del 34,9%
- la rete idrica di Roma (esempio che abbiamo sotto gli occhi di tutti) perde il 44%. Cioè di un litro immesso in rete quasi metà viene dispersa nel terreno
- sempre a Roma in piena siccità ci sono strade invase da un torrente d’acqua che, dopo una settimana, non era stato ancora fermato perché i tecnici dell’Amsa avevano affermato che “le procedure richiedono tempo”
Un disastro che non è una calamità naturale, ma che ha un preciso motivo: il rifiuto di accettare l’idea stessa di liberalizzazione. Ilche non significa privatizzazione, ma messa in gara di un servizio pubblico, in cui al comune (o alla regione) spetta il compito di indicare scopi, regole e limiti del servizio, controllare che venga espletato secondo le regole, punire le carenze e le inadempienze, ma non quello di fare l’imprenditore di se stesso, il controllante e il controllato nello stesso momento.
O si fa questa rivoluzione liberale, una rivoluzione che non solo non costa nulla ma fa risparmiare, oppure rassegniamoci all’acqua razionata, alle partecipate imbottite di amici e parenti inutili, con inefficienza e corruzione dilaganti.
Acea docet!
di Angelo Gazzaniga