Salvador Allende non è stato solo un’eroe nazionale cileno
C’è uno spettro che si aggira per l’Italia: Salvador Allende, uno dei più grandi manipolatori della seconda metà del xx secolo. Nel 1970 fu eletto con il Fronte Popolare presidente del Cile, e – forte dell’iniziale appoggio del generale Augusto Pinochet che poi lo tradirà nella sanguinosa guerra civile – avviò la famigerata “nazionalizzazione democratica” (un ossimoro senza poesia) dell’economia cilena, lo Stato Imprenditore che abroga il capitalismo senza passare dal bagno di sangue della Rivoluzione d’Ottobre. Il risultato: disoccupazione, ipertrofia dell’inflazione e colpo di Stato. Per la vergogna, Allende si suicidò: una fine non diversa da quella di Trockij e Lenin – se andiamo a vedere bene –, gli impostori senza inconscio che si autodistruggono. Narcisisti borderline che creano un castello di menzogne, e muoiono quando la menzogna si disvela innanzitutto a loro stessi: in altre parole, una fine patetica senza un briciolo di dignità.
Anche se è il trucco per diventare “icone immortali” delle personalità cosmico-storiche che di cosmica hanno soltanto la mediocritas; orbene, su Il Fatto Quotidiano Gianni Cuperlo, l’anti-Montanelli per eccellenza, il 29 aprile 2018 indica la necessità di un dialogo tra Pd e M56, paragonandolo alla reazione di Enrico Berlinguer al colpo di Stato di Augusto Pinochet l’11 settembre 1973: l’invenzione della formula del “compromesso storico” che toglieva il sonno a Indro Montanelli in una lunga e prosopopeica requisitoria titolata “Pd-M56, ci vuole un’intesa strategica alla Berlinguer”. Cuperlo dimentica di sottolineare che cosa fu la solidarietà nazionale 1976-1979 – ossia la “pacificazione nevrotica” tra schieramenti antagonisti come “rimozione del conflitto dialettico” (vedi Jacques Lacan) – tra Berlinguer, Andreotti e Moro. Un bagno di sangue. “Sangue e merda”, per dirla alla Rino Formica: occorrerebbe un intero articolo dedicato al tema. Per la tirannia dello spazio, si ricorda soltanto ai lettori che l’ingresso del Pci di Berlinguer – intestatario di una tangente di 21 milioni di dollari dal Banco Ambrosiano attraverso Paese Sera – nell’area della maggioranza di governo aveva come prezzo l’accettazione da parte di Berlinguer dell’isolamento tout court di Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore abbandonato della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, il Padrino. Valga il vero. Nel libro bestseller “Un eroe borghese – Il caso dell’avvocato Giorgio Ambrosoli assassinato dalla mafia politica” Corrado Stajano, che a differenza delle “democristianerie linguistiche” di Gianni Cuperlo ama la chiarezza e le frasi brevi, racconta a pag. 143: “Sono soli, Ambrosoli, Novembre, Gusmaroli, il giudice Viola, il giudice Urbisci, l’avvocato Tino, qualcun altro. Assediati, osteggiati, isolati. La solidarietà nazionale è una politica nemica. Il Pci, arrivato alle soglie del governo, smorza ogni critica, smussa ogni contrasto e in nome del realismo cede sui fondamentali principi. Pagherà crudamente le sue condiscendenze. Fino al 1979, il Parlamento è assente dal caso Sindona. Le interrogazioni, le interpellanze e anche gli articoli sulla stampa comunista sono rari. Il problema della Banca Privata Italiana e del suo melmoso groviglio non viene mai autorevolmente posto: Andreotti, il mallevadore delle grandi intese, è intoccabile”. Firmato Enrico Berlinguer.
“Pd – M56, ci vuole un’intesa alla Berlinguer”? La verità è che Cuperlo è uno dei tanti rovinati dal negazionismo. Ma la democrazia si può ancora salvare. A cominciare dalla chiarezza quando si parla e si scrive. La chiarezza che non a caso aveva Adam Smith, fondatore della “mano invisibile”, nel detestare il linguaggio piccolo-borghese di Niccolò Machiavelli, l’anima nera della cultura italiana. Più Adam Smith, meno Machiavelli: la
realizzabile utopia di un’Italia migliore. Meglio tardi che mai.
di Alexander Bush