L’arte di non dire

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Nei dibattiti e negli articoli sulla situazione in Medio Oriente (e non solo) è un susseguirsi di frasi fatte e ovvietà: non sarebbe più utile cercare di approfondire almeno qualche tema: in fondo la conoscenza è una delle basi della democrazia

Sto seguendo a spizzichi e bocconi, complice una connessione lentissima, un dibattito su un canale televisivo europeo. Poco importano il tema e gli ospiti: quel che vorrei rilevare è che da mezz’ora, per quante parole e opinioni vengano espresse, non si sta dicendo niente. Dev’essere un’arte involontaria che contraddistingue il sistema dell’informazione e in particolare gli spazi dei cosiddetti approfondimenti.
Ascoltando poche frasi per volta l’effetto è massimizzato: ne si coglie tutta intera l’inconsistenza o per meglio dire la totale prevedibilità. Nel caso in questione si parla di terrorismo islamico, ma il problema prescinde ampiamente dal tema. Seguendo in modo frammentario un dibattito televisivo siffatto si può cogliere il sottile meccanismo che regola la retorica del dire l’ovvio e di presentarlo come argomento o argomentativo.
La frase più gettonata è sempre la stessa: “La situazione è molto complessa”. Nel dire che la situazione è molto complessa si annuncia al cortese telespettatore che non sarà possibile sviscerarne che alcuni aspetti, guarda caso i più prevedibili. Dopodiché sopravvengono gli evergreen del risaputo: in ordine sparso i vari “bisogna riconoscere gli errori del passato”, “non bisogna dimenticare le responsabilità occidentali”, “dietro gli eventi in corso ci sono interessi che vanno al di là delle circostanze” e via elencando. Scopriamo così che gli Stati Uniti hanno commesso degli errori di strategia sullo scacchiere mediorientale – wow! – che i jihadisti esprimono un’ideologia totalitaria – doppio wow! – che l’aggressione americana all’Iraq aveva assunto a pretesto la menzogna delle armi di distruzione di massa – triplo wow! – che i sunniti sono stati marginalizzati dall’insediamento di El-Maliki – quadruplo wow! – e via dicendo (o meglio, non dicendo). Poi scopriamo che il web sta giocando un ruolo decisivo nelle guerre contemporanee – ma dai? – e che l’Occidente si è alleato con dittatori di dubbia reputazione – ma davvero? – e che nessuno può dirsi in grado di possedere una soluzione alle questioni in corso – ohibò! – e che i terroristi non allignano solo tra le classi disagiate – urca! Finalmente ci sentiamo dire ciò che sapevamo già. Ma con uno stuolo di ospiti a ripeterlo e qualche interessante collegamento dall’estero.
Ora, il problema è che questa arte del non dire coincide ormai con l’illusione del detto. Invece di entrare nel vivo della questione – nella fattispecie, invece di penetrare nel territorio in causa e interrogare finalmente i protagonisti della guerra in atto, non ancora e sempre i soliti commentatori – si esce dal seminato e si semina il risaputo con la disinvoltura di fare cosa utile.
Un esempio fra tutti: l’islamofobia. Ormai ripetere che distinguere fra terrorismo e islam moderato è un atout sa davvero di minestra rimescolata. Possibile non si possa chiedere conto di qualcosa di più essenziale? Per esempio: quali sono le strategie militari, i piani di avanzata dell’Isis? Non sarebbe ora di conoscere da vicino la mappa del loro insediamento? Ma chi ce lo può spiegare se non chi queste cose le conosce da vicino? E per fare un altro esempio: perché insistere ancora sull’ovvietà che la mancata integrazione suscita risentimento verso l’Occidente con le conseguenze ovvie che abbiamo sotto gli occhi? Che noia…
Se di un’arte si tratta, quella di non dire ciò che pure si sta dicendo, viene da chiedersi per quale ragione susciti un simile consenso. La risposta è semplice: perché lo spettatore medio non vuole conoscere di più ma veder confermati luoghi comuni, i propri innanzitutto: periferie disagiate, islamismo barbarizzato, Occidente colonialista, interessi reconditi. Una volta ascoltato il “non detto” di questo artistico diversivo al cabaret si sente confermato nella propria giustezza morale e culturale. Poi ne sa come prima, cioè nulla. Ma certamente è tranquillizzato dal sapersi sullo stesso piano di discernimento del mondo degli ospiti che ha appena ascoltato. Cioè non avverte quel – a mio avviso salutare – disagio di non avere in proprio possesso nessun elemento davvero probante per capire la “situazione troppo complessa” di cui sta ascoltando.

Marco Alloni

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