“… La serie di presunte frequentazioni pericolose del leader socialista (Craxi, ndr) è impressionante. Parliamo di personaggi di spicco – in contatto con boss che non possono apparire – che vengono mandati in avanscoperta dai politici a loro volta referenti di Craxi. Si racconta di incontri, appoggi per sveltire pratiche, tangentiversate. Emblematica, la vicenda di un terreno di centinaia di ettari, al Ronchetto, lungo il Naviglio Grande alla periferia sud milanese. Una storia che, quando giunge a maturazione – si parla di centinaia di milioni di lire di tangenti – è già stata monitorata attraverso intercettazioni telefoniche e ambientali della polizia giudiziaria agli ordini del sostituto procuratore Ilda Boccassini…”
Mario Guarino, Il bottino di Bettino
E’ uno dei periodi più belli nella vita del giornalista Goffredo Buccini, ne sono sicuro (mentre è il più
triste nella vita di chi scrive, con la salute in bilico a causa del II vaccino).
Buccini è un uomo pieno di passione, che con la ragione c’entra assai poco, ha da poco pubblicato il suo libro “Il tempo delle mani pulite”, è stato intervistato sull’Huffington Post da Stefano Baldolini, e ora il Corriere della Sera gli ha pubblicato un lungo articolo dal titolo “Trent’anni dopo Mani Pulite: è tempo che la guerra finisca”.
Sono balzato sulla sedia quando ho letto l’apologia del terzismo – tanto detestato da Eugenio Scalfari – fatta da Buccini nella parte conclusiva del suo articolo (poi sull’argomento Mani Pulite non tornerò più): “… E’ tempo che la guerra dei Trent’anni finisca. Che i ragazzi di oggi, pur in buona misura ignari di chi fossero i protagonisti di Mani pulite, non subiscano di quella stagione i miasmi politici e il cinismo antiistituzionale”. Continua l’apologeta del cerchiobottismo alla Sergio Romano Buccini, con un linguaggio che farebbe venire l’orticaria a Nanni Moretti – geniale regista frustratissimo, al quale piacciono le ballerine delle donne ed è pieno di rabbia “ultra-realista”:
“La retorica di valori condivisi è mera retorica se non si superano garantismo peloso e giustizialismo giacobino, se non si esce da uno schema binario (con noi o contro di noi) recuperando il senso delle posizioni dialoganti. E’ difficile immaginare scorciatoie. Tuttavia, Berlusconi è l’unico che, senza abiure, ma solo dismettendo i panni da perseguitato della giustizia, potrebbe aprire una nuova stagione…”.
Dunque, sono certo – e di questo non posso che essere contento – che Goffredo Buccini stia vivendo un periodo umanamente entusiasmante, caratterizzato dalla sua “servitù volontaria” ai paralogismi tanto cari a Immanuel Kant, fondatore dell’imbroglio della Ragione: “l’errore intenzionale nell’argomentazione”. Utilizzare la ragione per imbrogliare la realtà.
Io, dunque – se da un lato invidio l’entusiasmo di Buccini che si gode narcisisticamente il suo terzismo –, dall’altro osservo con la mia freddezza anti-passione (dovuta anche a otto anni di analisi) che il ragionamento sviluppato sul Corriere della Sera è irricevibile tout court: le guardie e i ladri non possono dialogare.
Poteva il magistrato Carlo Palermo “dialogare” con Bettino Craxi?
No, soprattutto alla luce del fatto che – nella cosiddetta guerra dei Trent’anni dei “white collar crimes” alla giustizia – rischiò di saltare in aria insieme a una donna e ai suoi due bambini come fossimo in una scena del film Il Camorrista di Giuseppe Tornatore, e il coinvolgimento di Craxi a titolo concorsuale nel mandato omicidiario di Cosa Nostra ai suoi danni risulta certo.
Infatti nel suo dossier “Il bottino di Bettino”, Mario Guarino scrisse: “… Carlo Palermo, Armi e droga. La mia inchiesta, conversazione raccolta da Michele Gambino, supplemento al n.7 di “Avvenimenti”, 19 febbraio 1997. Palermo si imbatte pure nei traffici illeciti delle finanziarie-casseforti del partito socialista: miliardi provenienti da fasulle cooperazioni con Paesi del Terzo Mondo effettuate dietro lo schermo di alcune società: Promit e Coprofin. Scriverà l’avvocato e deputato del movimento politico La Rete, Alfredo Galasso (tra l’altro componente del Csm, Consiglio superiore della magistratura):
“Bettino Craxi, usando carta intestata presidente del Consiglio invita perentoriamente il procuratore generale della Cassazione, che si affretta a darvi corso nel giro di poche ore, a promuovere la sospensione delle funzioni del giudice di Trento (ossia lo stesso Carlo Palermo, N.d.A.).
La vicenda del magistrato trentino trasferito a Trapani – meritevole almeno di una fiction televisiva, purchè fedele alla realtà – terminerà in modo tragico. Se non altro per descrivere uno spaccato di quest’Italia della vergogna. Pochi mesi dopo le indagini, nell’aprile 1985, il magistrato è oggetto di un attentato a Pizzolungo, nel trapanese. Al suo passaggio in auto, scoppia una bomba ad alto potenziale: lui si salva, ma l’ordigno colpisce un’auto di passaggio con a bordo la signora Asta e i suoi due bambini. I tre muoiono sul colpo”.
Orbene, dopo questa citazione di Mario Guarino giungo alla seguente conclusione che è contraria ai paralogismi: se si dovesse accettare il ragionamento di Buccini, il magistrato Palermo – vittima dell’isolamento criminogeno di Bettino Craxi, che era tra l’altro Presidente del Consiglio dei Ministri – avrebbe dovuto recuperare il senso delle “posizioni dialoganti” con Craxi stesso (sic!) e rifuggire dal “giustizialismo giacobino”: magari archiviando l’inchiesta che egli stesso conduceva su un grande traffico di armi e droga da parte delle “scatole cinesi” della P2 di Licio Gelli e del Garofano.
Seconda precisazione: è emerso un particolare ancora più grave a carico di Craxi nel corso degli anni a venire, che come raccontò Antonio Di Pietro a Susanna Turco nel febbraio 2020 per l’Espresso, era al vertice del “sistema Mafia-Appalti” in posizione secondaria a Giulio Andreotti: cioè compartecipava alle decisioni strategiche dell’allora Ministro dei Lavori Pubblici di Cosa Nostra Angelo Siino sulla illecita aggiudicazione del sistema degli appalti a livello nazionale tra imprese e politica, che strangolò l’economia nazionale portando all’arresto del “mariuolo” milanese, possibile sindaco, Mario Chiesa; Chiesa era uno dei referenti in Lombardia dei famigerati accordi di cartello “argentini” contro il Mercato in linea gerarchicamente subordinata allo stesso Angelo Siino (sic!): in Lombardia c’erano Chiesa e i suoi uomini, dal Pio Albergo Trivulzio a piazza Duomo 19 passando per la “Duomo Connection”, in Sicilia Siino e i cugini Salvo sopravvissuti alla seconda guerra di mafia del 1981: passati indenni dai moderati di Stefano Bontate ai corleonesi di Totò Riina.
Per le suddette ragioni, Guidoriccio da Fogliano insiste nel dire da tempo che l’Italia è un paese catto-comunista di stampo mafioso, inquinato dalle viscere della società civile.
Attenzione, poiché sia Andreotti che Craxi hanno attentato alla “mano invisibile” di Giove: non si può stare dalla parte di due padroni contemporaneamente, come ricorda incessantemente Paolo Flores d’Arcais.
O con Gesù o con Belzebù, tertium non datur.
A causa della distruzione sistematica della libera concorrenza depredata anche nelle sue “riserve indiane” (“doveva essere eliminata a priori”, come raccontò lo stesso Chiesa – un’intelligenza sprecata – alla Marcellina Andreoli), l’Italia come sistema Paese non rispose più alle istanze dei suoi cittadini e l’associazione a delinquere corleonese di Cosa Nostra pretese di mangiarsi la Repubblica Italiana –, a suon di bombe e stragi: Riina era come Pablo Escobar in Colombia.
E’ oggettivamente provato che Craxi riuscì a proteggere tra i forzieri di Hong Kong in Giappone i soldi delle tangenti condivise con l’entourage del citato Angelo Siino (gli altri circa 40 miliardi di lire se li mangiò il barista di Provincial Portofino Maurizio Raggio).
Maurizio Avola ha fatto menzione del mandato omicidiario di Craxi a Cosa Nostra nel progetto di eliminazione fisica del magistrato Antonio Di Pietro in un interrogatorio reso nel ’92 alla Procura di Palermo: “Avola: ’92 era… l’unica cosa eclatante che avevamo per le mani, era il favore che dovevamo fare a delle persone, l’uccisione del dottore DI PIETRO, all’epoca il PM di “mani pulite”, che doveva morire, perché stava facendo troppe indagini, stava scoprendo troppi altarini e troppe cose. Parte il D’AGATA con altre persone, si fanno questa riunione… all’hotel Excelsior, la zona era su Bergamo, che dovevamo colpire al D’AGATA chiedo a chi dovevamo fare questo favore, mi fa il nome di Bettino Craxi”.
Questo è stato indubbiamente il fatto più grave dal delitto Matteotti del 10 giugno 1924.
Sia Benito che Bettino erano due temperamenti ipomaniacali con tendenza a delinquere che non ragionavano sulle conseguenze delle loro azioni: agivano per impulso, e poi si pentivano a cose fatte – cioè nel “post factum” di azioni banditescamente contra legem – piangendo sul latte versato:
Hammamet e Salò, sono due facce della stessa medaglia.
Infatti Mani Pulite nasce da “Mafia Pulita”: non sono io a scriverlo, è dirlo è stato Antonio Di Pietro alla giornalista Susanna Turco in una bellissima intervista sull’Espresso del febbraio 2020 che vale la pena di trascrivere, riassuntivamente – e sulla quale, tra l’altro, si fonda l’assoluzione in appello del generale Mario Mori al processo della trattativa Stato/Mafia:
“Vi racconto la vera storia di Mani pulite – La maxitangente Enimont andò anche a Salvo Lima. Per conto della mafia e di Andreotti. Che sarebbe stato arrestato se Raul Gardini non si fosse ucciso. Le rivelazioni dell’ex pm”: “Craxi? Ma Craxi era solo uno dei tanti”. D’improvviso, allo scoccare della seconda ora e mezza di conversazione, con quel suo modo un po’ buffo e stratificato di parlare – sopra approssimativo, sotto preciso, fulmineo – Antonio Di Pietro, 69 anni, ex pm, ex politico, oggi avvocato sostanzialmente lontano dalle scene, butta giù l’ultimo feticcio che era rimasto in piedi di una pagina che ripercorre in un modo mai visto… Ecco lui, uomo di tanti snodi chiamato a parlare di Craxi, quando apre la porta di casa per prima cosa parla del Codice Penale. Ti accoglie così: “Scusi, ma il 323, io non l’ho mai contestato? Non ricordo di averlo fatto”.
“Prego? Il 323?”
“L’abuso d’ufficio adesso va molto di moda. Io l’ho sempre considerato una sconfitta dello Stato. Perché vuol dire che non hai la forza di scavare un po’ meglio. Lo dico perché, a differenza di Piercamillo Davigo, che è sempre stato monolitico sul tema – per lui sei colpevole fino a prova contraria – io ormai…
Prendete il Codice: al primo capitolo ci sono i soggetti processuali. Ecco, io ho fatto il poliziotto, il giudice, il pm, il testimone, la parte lesa, la parte civile, l’indagato, l’imputato: mi manca soltanto il “responsabile civile per le ammende” e le ho fatte tutte. Ho messo talmente tanti abiti, ho visto così tante giustizie, che le certezze granitiche di Davigo non ce le ho più, perché dipende dai vestiti che indossi, prima cosa. Secondo: sono sempre convinto che noi del pool di Milano abbiamo creato un effetto positivo, ma anche una conseguenza non voluta: pur nell’entusiasmo generale abbiamo creato tanti dipietrini. Già all’epoca: è stato quello che ha bloccato Mani pulite”.
“A bloccare Mani pulite sono stati i magistrati?”
“Mani pulite non è stata fermata dalla politica: è stata fermata dai giudici. E’ una storia che va riscritta, prima o poi. La politica non la poteva fermare, se i giudici avessero fatto il loro dovere. Mani pulite si ferma oggettivamente quando si rompe l’unicità dell’inchiesta. La sua forza era infatti nel cosiddetto fascicolo virtuale: nell’idea cioè di creare una connessione probatoria tra tutti i fatti, per cui procedeva una sola autorità giudiziaria. Ma nel momento in cui nascono i conflitti di competenza territoriale, il fascicolo si smembra: e allora non ha più tutti gli elementi, non si può più utilizzare, e soprattutto il pm che sta qua, non conosce l’insieme degli elementi del pm che sta là. E allora, nel 1994, ecco gli emulatori: Roma, Napoli, Catania, Foggia, Bari, Venezia, Genova etc. Oltretutto, invece che cercare il reato, ci si è messi a investigare se c’era un reato… Questo è un lato della faccenda: l’altro sta in quello che è successo a me con la vicenda di Filippo Salamone, il dossier Achille, di cui ho parlato nell’aula bunker”.
“A Palermo ha detto anche che Mani pulite si interrompe quando arriva alla connessione appalti-mafia. Partiamo da qui?”.
“Parliamoci chiaro. Ho intenzione prima o poi di parlarne, sto portando le mie carte e i miei documenti un po’ qua e un po’ là, nell’indecisione di cosa farci: io e mia figlia le vogliamo bruciare, mio figlio e mia figlia dicono di no. Ma se adesso si pensa di intitolare una strada a una persona esiliata, e si dice che Mani pulite è stata come piazzale Loreto. Sembra di vedere la storia in modo capovolto, ma ci sarà un modo per rivalutare questa storia.
Ci sarà. Mani pulite non l’ho scoperta io: nasce dall’esito dell’inchiesta del maxi-processo di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia. Là nasce. E Falcone dà l’incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui viene trasferito”.
“A Roma, come direttore degli affari penali al ministero di Grazia e Giustizia”.
“E il rapporto del Ros rimane lì, a Palermo, in mano a Pietro Giammanco, che lo mette in cassaforte. Falcone, appena vede tutto questo, ne parla con altre persone. Ne parla con me, perché io stavo lì, al ministero, e lui nemmeno lo conoscevo. Ero perito elettronico, ero stato alla Difesa, mi occupavo di informatizzazione degli uffici giudiziari. Sono stato chiamato lì perché all’epoca nessuno sapeva come funzionava, e invece scoprono che c’è uno che capisce qualcosa di informatica. Così conosco Falcone, la Del Ponte, e vengo a sapere di questa realtà. Falcone aveva l’idea che doveva informatizzare questa cosa, quindi già nasce lì”.
“E l’altra persona a cui ne aveva parlato?”
“L’altra era Paolo Borsellino: gli aveva detto di portare avanti quell’inchiesta del Ros. Con Borsellino ci siamo parlati ai funerali di Falcone: nella camera ardente, appoggiati alla colonna. E lui, che nel frattempo evidentemente aveva saputo che Falcone me ne aveva parlato, ripeteva: dobbiamo fare presto, dobbiamo fare presto. Io da parte mia ero partito due o tre anni prima, con Lombardia informatica. Dopo Capaci, Borsellino chiama, si arrabbia come una bestia, si fa dare il fascicolo da Giammanco e si mette a indagare. Chiama Giuseppe De Donno, Borsellino poi viene ammazzato. E io ho sempre sostenuto, ho anche degli elementi, che non è stato ucciso per quel che aveva fatto, ma per quel che doveva ancora fare in quell’inchiesta: non per il maxiprocesso insieme a Falcone, ma perché insieme a Falcone doveva far nascere Mafia pulita”.
“Mafia pulita?”
“Mani pulite non nasce con Mani pulite, nasce come figlia di Mafia pulita. E il mio obiettivo non era scoprire quello che ho scoperto: era arrivare al collegamento al quale già erano arrivati loro, a Palermo. Raul Gardini non si suicida così, per disperazione, il 23 luglio 1993: si suicida perché sa che quella mattina, venendo da me, doveva fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire”.
“Scusi, ma è roba nuova questa?”
“Ma no! Ne ho parlato con la procura di Brescia, Milano, ne ho parlato col Copasir, con la procura di Palermo, a Caltanissetta, ma sembra che a nessuno interessi più di tanto, eppure è una storia drammatica”.
“Cioè, lei sta dicendo: la tangente Enimont era andata un pezzo anche a Salvo Lima, come rappresentante di Andreotti e della mafia”.
“Se quel fatto veniva detto, se Gardini parlava, se Salvo Lima non moriva, io avrei potuto avere elementi sufficienti per chiedere al Parlamento di arrestare Andreotti”.
“Si sarebbero saldate le inchieste, Milano e Palermo… Sta raccontando Mani pulite e Palermo come un’unica storia”.
“Ma è così, una storia unica”.
“Mentre, nella primavera del 1992-‘93, il pool di Milano si occupava dei partiti, e loro si occupavano della mafia. Lei si occupava di Craxi, loro di Andreotti”.
“Tutti dicono che ho fatto Mani pulite per mettere sotto processo la Prima Repubblica. Io invece ho processato una sola persona: Cusani.
Gli altri erano indagati per reato connesso. Il vero casino nasce quando io faccio il grande errore di non fidarmi di Gardini. Perché io capisco – lo capivo perché già lo sapevo – che dovevo arrivare a Gardini: con lui avrei chiuso il cerchio”.
“Se Gardini non fosse morto, quello invece che il processo Cusani sarebbe stato il processo Gardini?”
“No: sarebbe stato il processo Mafia-appalti, Andreotti compreso”.
“Ma perché non si è fidato di Gardini?”
“… Se l’avessi arrestato ora sarebbe ancora vivo. Ora non so più quello che avrebbe messo per iscritto davanti a me. Alle otto mi telefona l’avvocato di Gardini, dice “stiamo arrivando”. Lui era già vestito. Da quanto riferisce il maggiordomo, si affaccia e vede i carabinieri. E pensa che io l’ho tradito. A quel punto: bum, è un attimo. Si è ammazzato perché era convinto che lo stavo arrestando”…
“Raccontata così, sembra tutta un’altra storia rispetto a quella che ho letto sui giornali… E Craxi? Tutta la parabola di Mani pulite vive dell’incontro tra voi due”.
“Nell’immaginario collettivo sì, ma nella realtà io non ho mai avuto un rapporto con Craxi. Io miravo all’ambiente malavitoso che girava intorno ad Andreotti”.
“E invece ha pescato Bettino”.
“Che era uno dei tanti”.
“Vuol togliergli pure il ruolo di protagonista?”
“Lo sanno anche le pietre: Andreotti è stato prescritto, fino al 1980, non è che è stato assolto. E dall’altra parte ci stava il sindaco, Vito Ciancimino, e Salvo Lima. Quindi, voglio dire: quello era il potere vero. Craxi era l’emergente, quello che faceva parte della Milano da bere. Nell’89 dal maxi-processo di Palermo si discute dell’ambiente che gravitava intorno alla Dc. Poi, per l’amore di Dio, la mia persona viene sempre accostata a Craxi: ma le indagini non erano finalizzate a lui come puntiglio personale”.
“Il leader del Psi aveva centralizzato il finanziamento, aveva un canale suo”.
“Questo dovette smetterla di dirlo. Il finanziamento passava attraverso Vincenzo Balzamo. Mentre i soldi trovati in Svizzera a nome di Giorgio Tradati, amico d’infanzia di Bettino, non era finanziamento: era corruzione. Craxi faceva come tanti: siccome quello era il sistema, una quota se la tenevano per loro e ci facevano quel che ci dovevano fare, a fini personali. Era un normale politico come tutti gli altri, che ha fatto quello che hanno fatto anche gli altri. Non è che ha agito diversamente. L’ha ammesso anche lui. Non c’è una differenza, non fatelo più grosso di quello che è…”.
Ps – Altro che la guerra dei Trent’anni di cui parlava in piena psicosi cerchiobottista Goffredo Buccini sul Corriere della Sera, poche settimane fa.
Solo il Libero Mercato salverà l’Italia, anche se una buona notizia c’è: Mario Draghi è geneticamente agli antipodi di Benedetto Craxi e Giulio Andreotti, e aspira ad essere il nostro Reagan. C’è però anche un fatto negativo sullo sfondo della transizione italiana in tempi di pandemia dall’ancien regime al nuovo: i Bisignani, Cusani, Balzamo, Cefis, ecc, cioè i killer provinciali della “mano invisibile” di Adam Smith, e che si sono rivelati “resilienti” allo stress delle manette, sono ben integrati nel tessuto economico sociale e ritengono erroneamente che è la società a fare gli individui, e che l’amicizia sia un valore superiore al Merito; così l’auspicato “privatismo smithiano” dell’economia non decolla.
Si suggerisce in proposito ai lettori di guardare, con attenzione, su Youtube l’intervista molto bella di Gianluigi Nuzzi a Luigi Bisignani su la 7, l’Howard Hunt italiano.
Non illudetevi. L’Italia non cambierà mai.
di Alberto Cosenza