È stata sufficiente la notizia che la Fiat aveva chiesto a Intesa un prestito garantito dallo Stato di 6,3 miliardi di euro per scatenare un putiferio: chi sostiene che dare soldi (o meglio garanzie) alla Fiat è tornare ai tempi degli Agnelli quando vigeva la regola “utili a me, perdite allo Stato” e chi sostiene che solo il pensare di entrare nel capitale dell’azienda sia una mossa in puro stile sovietico. Come spesso succede l’ideologia fa perdere di vista i problemi reali, la realtà quotidiana.
Infatti tutto ruota attorno a una necessità – quella di salvaguardare una filiera che dà lavoro a circa 450.000 italiani – e a un dilemma riguardo alle necessità della Fiat: il suo è un problema di liquidità o di solvibilità?
- se è un problema di liquidità (mancanza di soldi in cassa) un prestito che lo Stato garantisce a Intesa (e non alla Fiat) non è la soluzione migliore. Perché la Fiat Italia (che è la ditta che lo chiede) non si fa concedere un prestito temporaneo dalla capogruppo di diritto olandese che di liquidità ne ha in abbondanza? Non peggiorerebbe ulteriormente la situazione debitoria di FCA e eviterebbe una richiesta (più che legittima) di bloccare i dividendi per la durata del prestito (proprio per evitare l’accusa di “utili a me, perdite allo Stato”)
- se invece è un problema di solvibilità (mancanza di capitale) un prestito non risolverebbe nulla perché non è la liquidità che manca. Sarebbe utile in questo caso un aumento di capitale che potrebbe essere fornito dallo Stato. È esattamente quanto fatto da Obama per le aziende automobilistiche americane dopo la crisi del 2008 e che sta facendo la Merkel con Lufthansa: fornire il capitale necessario a superare il momento critico. S’intende che questo non vorrebbe dire avere la maggioranza o il controllo dell’azienda e che questa operazione dovrebbe essere a tempo determinato (cioè lo Stato dovrebbe sin d’ora stabilire entro quando cedere la partecipazione).
Lo Stato non avrebbe nulla da perdere perché se la Fiat fallisse perderebbe comunque tutto o perché dovrebbe garantire il rientro a Intesa o perché vedrebbe annullarsi il capitale, mentre se, come più che probabile, andasse tutto bene potrebbe realizzare un utile incassando i dividendi e vendendo le azioni a un prezzo maggiore.
È un problema, come si vede, di scelte razionali ed economicamente valide e non di slogan o di veti ideologici o propagandistici.
Stiamo parlando non tanto di investire 5/6 miliardi di euro, ma di salvare una filiera di 450.000 operai e una delle basi dell’industria italiana. Oppure preferiamo continuare in scelte tipo Alitalia che continua a ingoiare miliardi senza uno scopo e con il solo obiettivo di salvare consensi?
L’Italia non può permettersi un’altra Ilva o un’altra Alitalia
di Angelo Gazzaniga