“… Mi ero fuorviato perché avevo usato la leva finanziaria in modo non sufficientemente assennato, ma in un contesto particolare in cui sembravo invincibile… Con una serie di vittorie alle spalle, a un certo punto pensai che le cose dovessero andarmi sempre bene.
Gli eccessi ci furono, tuttavia la gente mi seguiva, non per simpatia ma perché ci guadagnava… Penso di aver avuto la prontezza e il realismo per uscirne prima di esservi costretto. Raul Gardini non ha capito in tempo, perciò è andato incontro a quella tragica fine. Io in questi anni ho interpretato la parte del ridimensionamento, nonostante non sia la più congeniale al mio carattere…”
Carlo De Benedetti, “Per adesso – Intervista con Carlo De Benedetti” di Federico Rampini
C’è un libro che andrebbe letto nel suo impasto tra Lux et Tenebrys, a firma dell’allora trentacinquenne Matteo Cavezzali, “Icarus. Ascesa e caduta di Raul Gardini” che era un po’ visionario e un po’ guascone: “questo mix può portare molto in là, verso dei grandi successi, ma può portare anche alla rovina” come disse bene Gianni De Michelis, avanzo di Balera (il copyright apparteneva a Enzo Biagi) nel documentario su Gardini curato da Giovanni Minoli.
Il contadino orgoglioso di Ravenna con tutti i tic piccoloborghesi intrinseci alla sua figura aveva guidato la fusione geniale tra Eni e Montedison che si rovescerà nella maxitangente Enimont – “la madre di tutte le tangenti” –, esponendolo allo scacco matto del (a mio parere) ineccepibile Antonio Di Pietro, un po’ contadino anche lui e intelligentissimo che stava dalla parte delle guardie in un paese di ladri. Venutosi a trovare in una “condizione mista” dell’umore che è stata descritta in maniera geniale da Cavezzali verso la fine del suo master piece, Gardini “passa all’atto” suicidario con un colpo di pistola Walter PPK sparatosi alla nuca nella prospettiva che dovesse parlare a Di Pietro non tanto della maxitangente Enimont che era ridimensionabile come concussione da parte del potere politico, ma piuttosto, e ben più scabrosamente – come nella debellatio delle matrioske che si addice all’ambiguità di un cold case – del reinvestimento di denaro sporco nelle holdings della Ferruzzi: atteso il fatto che Raul dal “volto tremebondo”, (vedi Piero Ottone) aveva ereditato dal suocero Serafino Ferruzzi rapporti inconfessabili con il giro dei Corleonesi poi fotografati nella “notitia criminis” del rapporto “Mafia-Appalti” del generale Mario Mori, insabbiata dalla Procura della Repubblica del Tribunale di Palermo alla voce Pietro Giammanco e Roberto Scarpinato.
Orbene, il corsaro Gardini aveva cercato di affrancarsi dal condizionamento del “tavolinu” gestito in Sicilia dal “Ministro dei Lavori Pubblici” di Cosa Nostra Angelo Siino con faccia di Charles Bronson, e lo hanno detto con la chiarezza dei cronisti di razza Gianni Barbacetto e Andrea Purgatori, ma non ha potuto in quanto la responsabilità dell’“affectio societatis” con il capo dei capi Totò Riina ricadeva sul padre di Idina Serafino, non sull’erede i cui ambiti di manovra erano limitati (e per di più si sentiva compresso, fagocitato dal “pater familias” precipitato misteriosamente con l’aereo); anche Enrico Mattei si sentiva compresso nel mezzo della “liaison dangereuse” tra Agip e Eni, ma poi riuscì a fare quello che voleva!
La ricostruzione romanzesca, da parte dell’enfant prodige Matteo Cavezzali che è un po’ artista e giornalista insieme, dell’incontro tra Totò Riina e Raul Gardini, ha irritato il professor Franco Fortis dell’università La Cattolica di Milano, ma è verosimile; il problema è quando ti trovi tra le porte girevoli: Raul avrebbe salvato la famiglia dall’umiliazione dello smascheramento del riciclaggio e dalla perdita dello status+minacce dalla criminalità organizzata (sic!), con il passaggio all’atto suicidario. Un gesto da eroe, una volta mi disse Piero Ottone. Ma c’è eroismo nel suicidio?
Il fatto, è che la tragica fine del condottiero del Moro di Venezia inviso al dominus di Mediobanca Enrico Cuccia – che abbandonò Michele Sindona, ma salvò Salvatore Ligresti Mister 5% nelle geometrie variabili del “Too big to fail” – ne ha oscurato le qualità positive a livello di opinione pubblica, esaltandone invece il tratto di mediocrità che pure è oggettivamente sussistente.
Tuttavia, la gente ignora che la mediocrità e la genialità sono due facce della stessa medaglia:
com’era vero per esempio di Enrico Mattei, una persona semplice ma che aveva una visione; di Silvio Berlusconi, che è geniale ma non è intelligente e una volta un bibliofilo siciliano mi disse: “Silvio è un genio pieno di difetti”, e – tra gli altri – di CDB: Carlo De Benedetti, l’Ingegnere di Ivrea. L’altro genio di quell’avventura che è stata “l’Espresso-Repubblica” insieme a Eugenio Scalfari, due temperamenti ipomaniacali.
Ciò che colpisce del finanziere ebraico che con Piero Ottone ha avuto un rapporto trentennale – fu mio nonno a presentargli il sofferente Mario Formenton: vitalità assoluta e intelligenza zero, e che poi Formenton sia stato divorato dal cancro non è un’attenuante per esagerarne i meriti (sic!) – è l’élan vital a 88 anni, insieme all’intelligenza dell’analisi: l’uomo che ha dato i capitali a Eugenio Scalfari, fa gli effetti speciali. Non ultimo – dopo la fondazione di “Domani” – la pubblicazione dell’instant book “Radicalità” con gli echi di John Maynard Keynes; il “one track mind” – cioè monodirezionale – Cdb ha reso una ricostruzione magistrale all’intervistatore fuoriclasse Massimo Giletti, da liberista solitario in un paese di provinciali, che non perdonano all’Ingegnere di Ivrea il cosmopolitismo e la tensione snob di chi sa prendere il caffè con Henry Kissinger, e sapeva tenere testa a Steve Jobs. Questo Silvio non glielo ha mai perdonato: parvenu, ha un complesso verso l’Establishment e chi ne fa parte. Chapeau. Nell’articolo “Carlo De Benedetti ha rifiutato il 20% di Apple per 200.000 dollari negli anni Settanta” di Ludovico Guzzo, è scritto: “… In un’intervista rilasciata a Radio24, De Benedetti ha dichiarato di aver avuto la possibilità di investire in Apple alla fine degli anni ’70 con un finanziamento di 200.000 dollari, pari al 20% dell’azienda. De Benedetti rifiutò la proposta arrivata direttamente da Steve Wozniak, socio di Steve Jobs, conosciuto come uno dei padri del personal computer. “Erano lì che smanettavano su delle piastre elettroniche”, riferendo di non aver dato molto peso alla richiesta. Successivamente definirà l’opportunità mancata come “l’errore più grande della sua vita”….”.
Ma non è forse vero che il successo è l’altra faccia del fallimento? Dunque, quello a “Non è l’arena” è il miglior De Benedetti dagli anni Ottanta con la cifra di Gordon Ghekko. Ma… C’è un però grande come una casa: il lato oscuro dell’Ingegnere.
Un po’ visionario e un po’ guascone, anche lui al pari di Gardini.
Il 24 giugno 2010, a Villa Durazzo a Santa Margherita in occasione del Festival del giornalismo gestito tra gli altri dalla vitalissima Fiorella Minervino, il lucido Michele Santoro mi disse: “I socialisti sono finiti tutti male. De Benedetti un po’ meno”. Sintesi perfetta.
Ha subito dei vulnus da Mani Pulite uscendone sostanzialmente indenne. Ma poteva finire male, molto male. Questione di Zeitgeist. Nel bellissimo instant book – più che libro nel senso classico – “Per adesso – Intervista con Carlo De Benedetti” di Federico Rampini edito da La Mondadori, l’avversario del Caimano fa un’osservazione molto bella dagli echi letterari e dice di sé: “… Greed, la febbre del guadagno, fu il sottoprodotto terrestre ed economico di un’avidità ad altissimo livello, lo stressamento di un sistema per ucciderne un altro. Ora mi rendo conto che non capii che cosa succedeva in quel momento. Ero un ballerino in quel salone di danza, attirato o frastornato dal movimento mondiale, con l’illusione di essere un portatore autonomo di novità…”.
“Rampini: “Lei stesso, in un’intervista a “Le Monde”, ha dichiarato: “Mi ero fuorviato nella finanza”. Che cosa ha voluto dire?”. Carlo De Benedetti: “L’ho detto e lo penso. Quelli (gli anni Ottanta, ndr) erano anni troppo facili per raccogliere capitali sul mercato, senza chiederti se i risultati dei tuoi investimenti sarebbero stati sufficienti per premiare chi ti finanziava. Mi ero fuorviato perché avevo usato la leva finanziaria in modo non sufficientemente assennato, ma in un contesto particolare in cui sembravo invincibile. A 45 anni la rivista “Time” mi dedicava la copertina con il titolo Olivetti’s dazzling comeback, poi c’era stato lo straordinario successo della Valeo…”.
“Rampini: “Lei ha finito di saldare i conti con quel periodo?”.
“DB. Penso di aver avuto la prontezza e il realismo per uscirne prima di esservi costretto. Raul Gardini non ha capito in tempo, perciò è andato incontro a quella tragica fine. Io in questi anni ho interpretato la parte del ridimensionamento, nonostante che non sia la più congeniale al mio carattere. Oggi il mio gruppo ha 10.000 dipendenti, 4000 miliardi di liquidità: resta uno dei primi in Italia. Certo non ha nulla di eclatante dal punto di vista giornalistico, ma è sano, in crescita e con grandi progetti in mente. E io non dimentico da dove sono partito”.
La spiegazione un po’ autoassolutoria dell’Ingegnere è indubbiamente suggestiva ma non è sottoscrivile tout court: c’è un particolare che omette di raccontare, poiché “il diavolo è nei dettagli” (forse lo ha detto Victor Hugo).
L’antefatto è il libro “L’uomo che sussurrava ai potenti” edito da Chiarelettere con Paolo Madron a firma di Luigi Bisignani, l’Howard Hunt italiano.
Nel 1992, si svolge una riunione segretissima negli uffici di Mediobanca, un incontro tecnicamente “piduista” organizzato dall’uomo di via Filodrammatici Enrico Cuccia alla presenza – tra gli altri – di Marco Tronchetti Provera che accompagnava il pavido Leopoldo Pirelli, Gianni Agnelli, Luigi Bisignani come direttore generale della Ferruzzi e Carlo De Benedetti; tema dell’incontro: come arginare le inchieste di Mani Pulite, trasformando l’accusa di corruzione in concussione. Un’abile “strategia difensiva” suggerita anche dagli avvocati degli imputati eccellenti per evitare l’umiliazione del carcere: noi imprenditori abbiamo pagato le tangenti al potere politico poiché siamo stati concussi; nella prefazione alla nuova edizione di Marco Travaglio, Gianni Barbacetto e Peter Gomez “Mani Pulite – La vera storia” edito da Paper First, Piercamillo Davigo parla di una furbata, e in effetti tale strategia di reinterpretazione delle prove – “excusatio manifesta, accusatio non petita” – è un’ipotesi falsa smentita dall’intervista di Mario Chiesa a Marcella Andreoli per Panorama nel dicembre del ’92, il “mariuolo” del Pio Albergo Trivulzio: gli imprenditori facevano a gara per venire da noi, impedendo “a fortiori” la libera concorrenza. Tra cui CDB, che pagava le tangenti alla Olivetti. 10 miliardi di lire.
Orbene, all’exitus di questa riunione strictly confidential, sono successi due fatti: Carlo De Benedetti è stato interrogato come persona informata sui fatti dall’allora pm Antonio Di Pietro, e ha ammesso il fatto della corruzione reinventato come concussione (sic!); il molisano Tonino gli crede e lo lascia andare, ma successivamente la gip di Roma Augusta Iannini – moglie di Bruno Vespa – ci vuole vedere chiaro, e nel ping pong delle competenze territoriali fa arrestare De Benedetti che passa una notte a Regina Coeli e poi ottiene i domiciliari: su “Il Foglio quotidiano” del 7 giugno 2016 uscì una nota a firma di Augusta Iannini: “Ho arrestato Carlo De Benedetti e mi pento solo di averlo scarcerato troppo in fretta”; che cosa sarebbe successo, se Di Pietro avesse scoperto la riunione da Romanzo Criminale di Mediobanca è facile dedurlo: forse la storia giudiziaria del nemico pubblico n.1 del Caimano sarebbe stata diversa, meno onorevole; Gardini si toglie la vita il 23 luglio 1993 nel Palazzo Belgioioso a Milano, raggiunto da un avviso di garanzia del pool della Procura della Repubblica del Tribunale di Milano.
L’interrogativo è allora inquietante: Gardini e De Benedetti facevano patta, ma De Benedetti è stato solo più fortunato? Se ciò fosse vero, sarebbe altresì vero quello che Donald Trump ha detto in uno dei suoi migliori aforismi “trumpisti”: “Ciò che separa i vincitori dai perdenti è il modo in cui una persona reagisce ad ogni nuova svolta del destino”.
Prendo atto del fatto che Trump è una persona straordinaria sia in senso positivo che negativo, e forse tornerà alla Casa Bianca.
Alcuni vincono e altri perdono.
Alcuni rimangono in vita e altri muoiono.
di Alexander Bush