Papa Francesco chieda scusa a Pietro Orlandi e pubblichi il rapporto Emanuela Orlandi, ora che c’è il coranavirus
Matteo 16: 26: “Che vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria anima?”
Santo Padre, pentitevi. Prima dell’Apocalisse.
Chiedo scusa ai lettori per queste note caratterizzate da un forte egocentrismo che sono però
finalizzate a offrirvi solidarietà: noi esseri umani siamo guidati dalla Mano Invisibile di Adam Smith
in ciò che facciamo.
C’è il coranavirus che sta dilaniando le nostre vite, un mostro pare senza uscita.
Bellissimo Carlo Verdelli, nel suo pezzo scritto a caldo sotto lo stress ansiogeno del rischio abisso “La coda del diavolo”: “… Nessuno era pronto al diavolo. L’Italia meno di altri. Ne stiamo pagando un prezzo incalcolabile, in termini di tragedia umana e di catastrofe economica…”.
E’ il venerdì 13 marzo 2020, e chi scrive sta soffrendo l’intensa e prolungata somatizzazione di una strana ipertensione arteriosa che non conosce tregua dal venerdì precedente – con alcune puntate di 190/115 di pressione massima e minima durante il giorno e la notte; lo stress test di una simile esperienza con tachipsichia negativa nell’horror vacui del precipizio – un fondo senza caduta –, induce chi sta scrivendo a dormire praticamente tutto il giorno senza fare niente tout court, con alcune curiose difficoltà alla memorizzazione di informazioni relative al passato e al presente. Là dove mi vantavo di possedere una memoria prodigiosa, riscontro blackout mnemonici già vissuti durante la sperimentazione (ma meno grave dell’attuale fase esistenziale) di psicosi maniacodepressive attenuate. Onestamente? Si sta complicando il mio quadro di salute psico-fisica addirittura con alcuni episodi di sindrome infantile sotto traccia del comportamento. Brutta faccenda. Ma… c’è ancora qualcosa che sento di poter fare pur stando notevolmente male. Ho letto in questi giorni che Jorge Bergoglio – a causa dell’emergenza del virus che come ha scritto Carlo Verdelli su la Repubblica rappresenta “la coda del diavolo” – si è dovuto rifugiare nella Biblioteca del Vaticano, e in questa sede ha rivolto preghiere per chi sta soffrendo il male atroce del nemico invisibile in queste ore. Non basta. Non è sufficiente. No, maledizione: Papa Francesco deve aver sicuramente rivisto sparso tra i libri della stanza dove è stato isolato securitariamente il “Rapporto Emanuela Orlandi” di 200 pagine circa, presentatogli strictly confidential dal Cardinal Parolin che lui ha censurato, sul mantenimento a spese della Città dello Stato del Vaticano della cittadina Emanuela Orlandi sequestrata a 15 anni di età in pieno centro a Roma il 22 giugno 1983.
La posta in gioco del rapimento: un ricatto messo in atto dal capo dello spaccio di eroina e cocaina Enrico De Pedis a Giovanni Paolo II: non ti restituiamo la ragazza, se non ci restituisci i 20 miliardi di lire che abbiamo imprestato a Te per finanziare Solidarnosc di Lech Walesa in Polonia (processi
Banco Ambrosiano, omicidio di Roberto Calvi, ricettazione della borsa di Calvi).
Orbene, io vorrei – non riesco già più a scrivere a causa dello stress test dell’ipertensione cronica – che Jorge Bergoglio si guardi allo specchio in queste ore drammatiche per l’umanità intera e legga attentamente il ritratto che di lui ha scritto Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela – dalle colonne di Micromega; dopo averlo letto, non esiti nella qualità di vicario di Gesù Cristo in terra (almeno giuridicamente parlando) a pubblicare il codice 158 delle telefonate segrete tra il cardinale Agostino Casaroli e i rapitori di Emanuela, e il famigerato “Rapporto Emanuela Orlandi”. Già, sarebbe l’unico gesto autenticamente cristiano che voi, Jorge Bergoglio, finora avete mancato di compiere. Le tenebre si annunciano sull’umanità, e non possiamo più tornare indietro. Purtroppo. Mentre “lo scandalo del reale” (J. Lacan) irrompe nelle nostre fragilissime vite, compresa quella di chi scrive, affido alla tensione e all’attenzione dei lettori il memorandum “segreto” di Pietro Orlandi sull’altro Papa Francesco – quello meno noto – pubblicato nel numero 4/2018 di Micromega alla voce “Potere vaticano – La finta rivoluzione di Papa Bergoglio”: “Mia sorella Emanuela dentro una rete di ricatti vaticani – Religiosa omertà … Il Vaticano io l’ho sempre considerato casa. Mio nonno vi era entrato nel 1920 come stalliere, mio padre ci ha lavorato prima come elettricista e poi come messo pontificio. Il nostro cortile erano i giardini vaticani e vi abbiamo passato un’infanzia felice. Anche se ero piccolino mi ricordo di Giovanni XXIII che si fermava a salutarci. Era come un paesino. E ho continuato a considerarlo casa per tanti anni. Mia madre ancora abita lì. Tutto ciò per dire che noi nutrivamo massima fiducia nelle istituzioni vaticane. Per cui sentir dire al papa che si stava occupando della questione era come sentire un capofamiglia che dice: “Non vi preoccupate, ci penso io”. E invece oggi sono convinto che Wojtyla sapesse e che abbia messo su un piatto della bilancia la verità sulla scomparsa di Emanuela e sull’altro l’immagine della Chiesa, scegliendo quest’ultima. E lo penso perché dopo i primi tempi ha permesso al silenzio e all’omertà di calare su questa storia. Dopo il Natale del 1983 passarono dieci anni prima che lo incontrassi di nuovo. Ci ricevette nel 1993, in occasione del mio matrimonio. Mi fece quasi pena, dipendeva completamente dal suo segretario. Secondo me non aveva più alcun tipo di potere. Ci chiese se ci fossero novità. E mia madre gli rispose: “Io spero torni il prima possibile. Vorrei che fosse Lei, il giorno che si sposerà mio figlio, a celebrare il suo matrimonio”.
Con il successore di Wojtyla le cose sono andate anche peggio. Direi che del caso di mia sorella Ratzinger se n’è proprio lavato le mani. Ma è sotto il suo pontificato – anche se non grazie a lui – che sono avvenute le cose più significative. Fu in quel periodo infatti che mi lasciai convincere dal giornalista del Corriere della Sera Fabrizio Peronaci a scrivere un libro perché pensavo che potesse essere utile per mantenere viva la memoria di Emanuela e l’attenzione sul suo caso. E in effetti un interesse si risvegliò e ne nacquero manifestazioni, petizioni… e grazie anche alla solidarietà di migliaia di persone siamo riusciti a non far dimenticare Emanuela.
Nel 2008 mia madre chiese alla segretaria di Ratzinger se fosse possibile ricordare Emanuela con una preghiera durante l’Angelus. Non accadde. La segretaria disse a mia madre che aveva riferito la richiesta ma che il papa aveva risposto che avrebbe dovuto chiedere alla segreteria di Stato. Avanzai la stessa richiesta per l’Angelus successivo. Non accadde nulla neanche quella volta. Ebbi poi occasione di leggere la lettera con cui la segretaria di Stato dichiarava che non era il caso che Ratzinger si pronunciasse sulla vicenda perché sarebbe stato come dare appoggio alla mia battaglia. L’arrivo al soglio pontificio di Bergoglio riaccese le nostre speranze. Quel che si raccontava di lui – il fatto che fosse vicino alla gente – ci lasciava ben sperare. Ma le nostre aspettative sono state completamente deluse.
Un paio di settimane dopo la sua elezione venni a sapere che avrebbe dovuto tenere messa nella parrocchia di Emanuela, a Sant’Anna, in Vaticano, e così ci andai. Servivano gli inviti ma io passai da dietro, come facevamo sempre da ragazzini… Mi piazzai in seconda fila e percepii subito un clima di allarme, con i gendarmi che si scambiavano occhiate… Finita la messa, il papa si posizionò all’entrata della Chiesa per salutare i fedeli e così andai anch’io che inizialmente mi ero invece preparato ad aspettarlo in sagrestia. Eravamo io, mia madre e mia sorella. Accanto a lui c’era il comandante dei gendarmi che gli disse due parole su di noi, indicandoci. Il papa si rivolse quindi a mia madre e a me dicendo la frase che ha poi fatto il giro del mondo: “Emanuela sta in cielo”. Fui molto colpito, già solo sentire il nome di Emanuela dalla voce di un papa… Non accadeva dai tempi di Giovanni Paolo II. Non ricordo esattamente cosa risposi ma più o meno gli dissi che ancora non c’erano le prove, che speravamo che Emanuela fosse viva e che confidavamo nel suo aiuto. Lui si limitò a ripetere che Emanuela era in cielo. Quelle parole mi fecero male perché pensai fosse un modo delicato di dirmi che mia sorella era morta e che avrei dovuto mettermi l’anima in pace e io invece, nonostante mi renda conto che sono passati tanti anni e che è quindi possibile che sia morta, continuo a dire che, finchè non ne avrò le prove, per me è un dovere cercarla viva. Allo stesso tempo però pensai che forse finalmente potesse esserci la volontà di collaborare per arrivare alla verità. Da quel momento ho inoltrato moltissime richieste al segretario particolare del papa, monsignor Fabian Pedacchio, per cercare di ottenere un incontro, perché volevo dare un senso a quelle parole. Che a inchiesta ancora aperta, un papa, capo di Stato, dica che Emanuela è morta per me significa che sa qualcosa in più di noi. E poiché non ci sono le prove della sua morte, si deve assumere la responsabilità di quanto ha detto e farci capire perché ha pronunciato quelle parole. Anche perché se Emanuela è in cielo, le sue ossa stanno però qui in terra da qualche parte. E per mia madre, che è molto credente, poterle dare una degna sepoltura sarebbe importante. Se poi quelle parole le ha dette così, solo per dare conforto alla famiglia, io lo accetto, ma ce lo dica. Ma da quel momento il muro si è alzato più di prima.
Pur avendo assicurato la massima riservatezza, non sono mai riuscito a parlare con lui. Il segretario particolare mi ha risposto che lui non si occupa dell’agenda del papa. E alle mie successive mail non ha neppure risposto. Qualche mese fa ho parlato anche con il segretario di Stato, monsignor Pietro Parolin, il quale è stato molto disponibile ma mi ha detto chiaramente che è escluso che io riesca a incontrare Bergoglio.
In compenso, si fa per dire, lo scorso anno gli fecero scambiare due parole con mia madre. Una persona che si interessa del nostro caso si mise in contatto con il sostituto della segreteria di Stato, monsignor Giovanni Angelo Becciu, il quale acconsentì alla richiesta a patto che io rimanessi all’oscuro della cosa. “L’importante è che non si presenti col figlio”, furono le sue parole. Mia madre quella mattina era nei giardini vaticani a pregare, come faceva spesso, quando fu avvicinata e condotta dal papa: fino a pochi minuti prima dell’incontro non sapeva con chi era in procinto di parlare per cui non ebbe modo di chiamarmi e se fosse stata a conoscenza della condizione posta – mi disse – neppure ci sarebbe andata. Comunque in quella manciata di minuti il papa si limitò a rivolgerle qualche parola di circostanza.
Francamente non riesco a capire questo atteggiamento. Se l’obiettivo era indebolire le nostre denunce sarebbe bastato in tutti questi anni che qualche volta avessero accolto la nostra richiesta di nominare Emanuela durante l’Angelus, o che ci avessero concesso un colloquio. E invece ciò non è avvenuto. Quando nel 2013 chiesi a papa Francesco di dire una parola per Emanuela durante l’Angelus che cadeva proprio in concomitanza con l’anniversario della sua scomparsa, e lui non raccolse l’invito, dalla piazza, dove c’erano diversi sostenitori della nostra battaglia, forte si levò il grido “Vergogna!”. E anche se ovviamente nessun giornale l’ha riportato, al suo orecchio è senz’altro giunto quel grido di protesta. Perché arrivare a questo quando sarebbe bastata una parola? Bergoglio mi ha totalmente deluso e ritengo che abbia avuto un comportamento persino peggiore dei suoi predecessori.
Perché io sono convinto che anch’egli sia a conoscenza di quanto accaduto e questo confliggerebbe con l’immagine che vuole dare di sé: quella di difensore della verità e della giustizia. E’ quello che chiamerei un comportamento ipocrita.
Bisogna inoltre tenere presente che, prima di dimettersi, Ratzinger fece preparare a tre cardinali – Julian Herranz, Jozef Tomko e Salvatore De Giorgi – una specie di rapporto su tutto ciò che accadeva in Vaticano, in cui sicuramente c’è anche un capitolo dedicato alla vicenda di Emanuela. E questo dossier di 300 pagine, consegnato direttamente a Benedetto XVI, fu passato proprio – e solo – a papa Francesco.
Io all’epoca cercai di contattare il cardinale De Giorgi, lo chiamai a casa a Porta Angelica ma non appena feci il mio nome lui entrò nel panico e alla mia richiesta di poterlo incontrare mi rispose che non sapeva niente di quella storia. Gli dissi che pensavo che nella sua veste avrebbe dovuto prestare ascolto a chi gli si rivolge per avere aiuto. Ma ciò che mi fece capire quanto fosse agitato è che mi disse che in ogni caso in quel momento non avrebbe potuto fare nulla perché non era a Roma… Ma io l’avevo chiamato al fisso di casa, a Porta Angelica!
E quanti altri mi hanno attaccato il telefono in faccia non appena sentito il mio nome… come se la cornetta scottasse!
Tutto ciò mi induce a pensare che i tre papi che si sono succeduti a San Pietro da quando Emanuela è scomparsa siano a conoscenza di quanto è accaduto. E mi sento autorizzato a dire questo a partire dal loro comportamento: Emanuela è una cittadina vaticana per cui avrebbe dovuto e dovrebbe essere loro interesse occuparsi della vicenda e invece fin dall’inizio hanno evitato qualunque tipo di collaborazione, rifiutandosi persino di consegnare agli inquirenti le registrazioni delle telefonate ricevute dai presunti rapitori. L’unica registrazione di cui si è venuti in possesso arrivò al programma televisivo Chi l’ha visto in forma anonima e si interrompe quando il presunto rapitore riesce a farsi passare l’allora cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli.
Furono gli stessi inquirenti, già allora, a dirci che da parte del Vaticano non c’era nessuna collaborazione. Vincenzo Parisi, all’epoca a capo del Sisde, parlava di una “copertura”. Nicola Cavaliere – ex capo della squadra mobile di Roma – mi ha detto che da parte dei superiori non c’era una grande spinta ad andare avanti perché subivano la pressione del Vaticano che mirava a rallentare le cose. Io me ne resi conto per davvero solo nel 1997, quando chiusero la prima inchiesta e si verificò un evento inatteso, una crepa nella diplomazia vaticana. In quei giorni mi chiamò una giornalista del Corriere della Sera chiedendomi cosa pensassi della chiusura dell’inchiesta e cosa immaginassi ne potesse pensare il Vaticano. Io risposi che il Vaticano in quegli anni non si era mai occupato seriamente di questa vicenda, che era rimasto in silenzio e che in sostanza si era dimenticato di una sua cittadina. Dopo qualche giorno mi chiamò il presidente del governatorato, il cardinale Josè Castillo Lara, la terza carica del Vaticano dopo il papa e il segretario di Stato. Andai nel suo ufficio e aspettai di essere ricevuto nel salotto antistante. Castillo Lara arrivò col giornale in mano, me lo tirò addosso e mi disse: “E questo cos’è? Ancora con questa storia di tua sorella? Non ti basta che ti abbiamo dato un lavoro? Se fossi il tuo capo io ti metterei nell’angolo più lontano dello Ior”. Io ero scioccato. Risposi che anch’io avrei fatto lo stesso se fossi stato il suo capo, che di certo non barattavo la vita di mia sorella con un lavoro e che avrebbero potuto anche licenziarmi. Dopo poco lo mandarono via. Forse proprio per aver aperto quella crepa nella diplomazia vaticana. Ma aveva solo dato voce a quello che era il pensiero generale: quella storia andava dimenticata.
Ancora oggi quando mi fermo a parlare con qualche prelato – anche del più e e del meno – vedo che si girano attorno per controllare che nessuno li veda. Una sera, non tanti anni fa, mi telefonò monsignor Francesco Salerno, un prelato molto vicino alla mia famiglia, con cui ci vedevamo spesso, che è morto di recente: mi disse che per qualche giorno sarebbe stato meglio evitare di vederci perché dalla segreteria di Stato gli avevano chiesto spiegazione dei nostri incontri.
Insomma si respirava e si continua a respirare un clima che non riesco a comprendere ma che mi fa dire che ci sono personalità – magari sapessi i nomi! – che conoscono la verità e che non vogliono che diventi di dominio pubblico perché evidentemente le responsabilità sono troppo gravi”.
Ps – Leggendo l’editoriale di Carlo Verdelli “La coda del diavolo” su la Repubblica, si capisce che qualcosa di terribile sta accadendo da più di un mese nelle nostre vite. Qualcosa di mostruoso che si vede solo nei film di Stephen King. Che cos’ha da perdere Papa Francesco rispetto al suo dovere di rendere giustizia alla famiglia di Emanuela Orlandi? Dica qualcosa di cristiano sul caso Orlandi. Anzi, mi rivolgo direttamente a Lei, Papa Francesco, se pur con riserva. Se non ora, quando?
di Alexander Bush