Libertates Papers – Perché tornare alla certezza del diritto

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Un saggio che affronta dal lato pratico, cioè per avvocati e magistrati, il problema della certezza del diritto

RADBRUCH sostiene che “ogni ordinamento giuridico vuole servire contemporaneamente a TRE scopi: garantire la GIUSTIZIA, promuovere il BENE COMUNE, creare la SICUREZZA del diritto. Gli ordinamenti giuridici si distinguono tra loro per il rapporto gerarchico in cui si trovano questi scopi”. Lo stesso Radbruch informa che “nell’ordinamento giuridico inglese predomina lo scopo della sicurezza del diritto”. Ed ancora “La missione del diritto inglese è di richiamare il resto del mondo alla consapevolezza che non si può impunemente rinunciare alla sicurezza del diritto. La sicurezza del diritto è il presupposto di tutta la cultura. Questa esigenza viene dalla stessa profonda necessità da cui viene l’idea della legge di natura: la necessità di dare un ordine al groviglio della realtà, di renderlo prevedibile e assoggettabile. Non è un caso che un pensatore inglese, Bacone, il teorizzatore della moderna scienza della natura, abbia indicato la sicurezza del diritto come il primo fra i valori giuridici”.
In sintesi gli scopi del diritto sarebbero generalmente tre: giustizia, bene comune, sicurezza e, nell’ordinamento inglese, la sicurezza sarebbe il primo di tali scopi.
Ebbene, secondo me, quella “sicurezza” che noi chiamiamo la CERTEZZA DEL DIRITTO, non è né uno tra, né il primo degli, scopi del diritto, bensì l’unico ed essenziale scopo del diritto.
Il diritto, per definizione corrente, è il «complesso di norme giuridiche che comandano o vietano determinati comportamenti ai soggetti che ne sono destinatari» e più particolarmente, la norma giuridica, che è l’unità del cui insieme è costituito il diritto oggettivo, «si estrinseca in un precetto ipotetico, con cui si stabilisce che ogni qualvolta si verifichi una data fattispecie debba aver luogo un determinato effetto» (Dizionario Enciclopedico Treccani).
Dunque il diritto, la norma, è una regola di casi futuri con la quale il legislatore stabilisce e dichiara espressamente ora, e quindi preventivamente, come si comporterà di fronte a determinati fatti, in futuro, quando si verificheranno.
Con la conseguenza che se nel frattempo (o peggio quando si è già verificato il fatto) si cambia la regola — magari per conseguire encomiabilissimi fini, quali ad esempio la giustizia nel caso concreto, che mal si adatta — questa regola dettata per l’occasione non sarà più diritto.
Potrà essere qualsiasi cosa — da massimo bene della comunità tutta ad oppressione della stessa; da somma giustizia a brutale esercizio del potere — ma non certamente diritto, regola preventivamente posta di casi futuri. Né si tratta di una questione puramente terminologica, che peraltro ha sua fondamentale importanza, ma proprio di una questione sostanziale.
Infatti gli altri scopi indicati, e cioè la giustizia ed il bene comune, non sono altrettanto essenziali per il diritto.

* * *

Naturalmente, nel fare diritto, si può tentare di conseguire la giustizia o il bene comune o entrambi. Ma già il fatto che non si debbano, necessariamente e pariteticamente, perseguire entrambi gli scopi, rivela subito che nessuno dei due è essenziale. Anzi è tutt’altro che scontato che giustizia e bene comune debbano necessariamente andare d’accordo. Ma procediamo con ordine.
I) Il bene comune può essere perseguito senza, o addirittura contro, la giustizia.
Il sacrificio dei diritti della persona, quando non addirittura della persona, fisicamente, e perciò della “giustizia” — intesa come giustizia nei confronti dell’individuo, giustizia nel caso singolo — era una costante dei regimi che si prefiggevano quale scopo essenziale il bene comune (od almeno della classe più numerosa e quindi, se non proprio comune a tutti, comune a quasi tutti) tant’è che si chiamavano appunto: comunisti.
Credo che sia fin troppo facilmente presumibile che nessuno, delle decine di milioni di persone appartenenti alla comunità che li ha uccisi, fosse convinto di essere vittima della “giustizia”. Ma con tutta probabilità non ne erano convinti neppure gli assassini che, se ed in quanto comunisti, deliberatamente accettavano ed occorrendo perseguivano l’ingiustizia nei confronti della persona, per l’edificazione del paradiso in terra. Insomma il bene comune non solo non implica, ma può sovrapporsi ed al limite contrapporsi alla giustizia.
II) Dal canto suo, anche la giustizia può essere perseguita senza o contro il bene comune.
Il sistema liberaldemocratico considera inalienabili ed insopprimibili alcuni diritti della persona umana e, quindi, il riconoscimento degli stessi, ovvero la “giustizia” nei confronti dell’individuo, è irrinunciabile indipendentemente dai costi che possa comportare per la comunità. Gli esempi sono innumerevoli e vanno dalla presunzione di innocenza alla proprietà privata. In molti casi la tutela dei diritti di ciascuno — e principalmente del diritto di disporre liberamente della propria persona, sia fisicamente sia per quel che concerne le proprie scelte di vita (inevitabilmente condizionate dalla propria situazione economica) — è indifferente per la comunità. Ma in alcuni casi comporta costi, a volte anche elevati e, quindi, è contro il bene comune.
III) Ovviamente c’è chi intende diversamente la giustizia, in senso lato e perciò come sostanzialmente coincidente con il bene comune e chi, d’altro canto, considera la giustizia nei confronti dell’individuo come il presupposto necessario del bene comune. Ma questo, lungi dal semplificare, complica notevolmente il discorso, poiché introduce il tema della relatività dei concetti di giustizia e bene comune.
Per il momento, è nel contempo sufficiente e certo, che “giustizia” e “bene comune”, lungi dall’essere interdipendenti, sono scopi che possono addirittura contrapporsi e, quindi, il loro contemporaneo conseguimento, ammesso che sia possibile, non è necessario in assoluto e, tanto meno, nell’ambito del diritto, mediante il quale possono, e spesso sono, alternativamente perseguiti. E, dunque, non sono entrambi essenziali.
Resta l’ipotesi che almeno uno solo dei due scopi debba considerarsi come essenziale per il diritto, con l’improbabile conseguenza che tutti gli ordinamenti che perseguano l’altro scopo non siano da considerarsi “diritto”. Ma, come vedremo subito appresso, la verità è che, né l’uno né l’altro, autonomamente considerato, è essenziale per il diritto. In entrambi i casi, si tratta di scopi rispetto ai quali il diritto si può porre come mezzo e che, nella misura in cui sono perseguiti e conseguiti dal diritto diventano intrinseci allo stesso, mentre nella misura in cui non sono perseguiti e conseguiti dal diritto, restando al di fuori di esso, sono irrilevanti. Per giunta, ed in ogni caso, il loro conseguimento è perseguibile anche con altri mezzi e non necessariamente con il diritto.

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È veramente difficile, anche se teoricamente non impossibile, che un legislatore nel dettare un ordinamento giuridico, nel fissare le regole della convivenza sociale non dichiari di porsi lo scopo di raggiungere il bene comune.
Ma per considerare il bene comune come scopo essenziale del diritto, e cioè scopo senza il quale il diritto non sarebbe più tale, occorre definire il “bene comune”, altrimenti definiremmo il diritto con un riferimento ad un qualcosa di indefinito. Sennonché, come si è accennato, il “bene comune” è una nozione relativa che, solo per fare qualche esempio, può essere inteso come il bene di una classe o come il bene di ciascun individuo, ma che in realtà può essere inteso in innumerevoli modi.
Di questi, due contrapposti, sembrano i fondamentali, e cioè:
I) QUEL bene comune che lo stesso legislatore pone. Ed allora nulla aggiunge e nulla toglie all’ordinamento, al diritto che ne è espressione, se non l’esigenza di armonia interna, nel senso che le singole norme devono appunto armonizzarsi con le norme fondamentali, generalmente costituzionali, che pongono il bene de quo.
II) UN bene comune, qualunque esso sia, che comunque sia diverso da quello posto dal legislatore e cui dovrebbe uniformarsi l’ordinamento vigente. Ed allora è subito chiaro che o è il “bene comune” in assoluto, valido per tutti, da sempre e per sempre, che però non mi risulta ancora individuato; ovvero è uno dei tanti “bene comune” alternativi, semplicemente fuori legge.
Quindi il diritto non è caratterizzato dal suo scopo “bene comune”, se non nel limitato senso che costituisce un mezzo per conseguire non “il”, ma “quel” bene comune che eventualmente indica e fa suo il legislatore.
E cioè che il diritto è tale indipendentemente dal tipo di “bene comune” che esso stesso si pone come scopo. Che poi equivale a dire chiaramente e semplicemente che il diritto è tale indipendentemente dal “bene comune”.
D’altro canto per conseguire il “bene comune” non c’è nessun bisogno del diritto.
Qualsiasi capo tribù — che si tratti di una tribù del tipo clan familiare lontana millenni nel tempo o di tribù infinitamente più grandi, potenti ed organizzate come quelle di Hitler o di Stalin — può proporsi il bene comune, uccidendo la bestia feroce o il nemico del popolo, esterno o interno che sia, non importa se reale o immaginario. Ma comunque, anche senza far riferimento a casi estremi, è evidente che lo scopo “bene comune” può essere perseguito, ed eventualmente conseguito, con l’esercizio del potere esecutivo oltre che di quello legislativo.
Dunque il diritto è indipendente dal “bene comune” che non gli sia implicito e per converso il “bene comune” è indipendente dal diritto.

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È praticamente, se non teoricamente, impossibile rinvenire un ordinamento che non si ponga come scopo la giustizia. Ma quale giustizia?
Se è quella di chi la intende in senso lato, come sostanzialmente coincidente con il bene comune, non c’è che da riportarsi al discorso appena fatto a proposito di quest’ultimo.
Se. viceversa, è intesa in senso più stretto come giusto, equilibrato, regolamento dei rapporti, anche non contenziosi (e perciò non solo come esercizio della giurisdizione) tra soggetti giuridici, individuali o collettivi che siano, le possibilità di definizione del concetto di giustizia, se non sono tante quanti i soggetti interessati, sono certamente innumerevoli.
Ma anche in questo caso soltanto due, e contrapposti, sono i concetti di giustizia che mi sembrano fondamentali, e cioè:
I) La giustizia, così come lo stesso legislatore la intende e secondo i criteri che pone. Con la conseguenza che sarà necessario e sufficiente applicare la legge per realizzare la giustizia. In tal senso il concetto di giustizia è riassunto dall’espressione “la legge è uguale per tutti”.
II) La giustizia, qualunque essa sia, ma che comunque sia diversa da quella del legislatore. Ed ancora una volta è subito chiaro che o si tratta della “giustizia” in assoluto, valida per tutti, da sempre e per sempre (tanto per intenderci la giustizia divina) che non mi risulta ancora definita; ovvero si tratta di una delle tante “giustizie” alternative, semplicemente fuori legge, che non avrà alcun titolo per essere preferita alle altre, finquando non avrà conquistato, democraticamente o non, il potere.
Dunque la legge è giusta nella misura in cui è uguale per tutti. Come dire se, ed in quanto, è, sempre e nei confronti di chicchessia, se stessa. Non certamente nella misura in cui realizza uno scopo di giustizia, che non sia il suo o che comunque sia posto all’esterno ed indipendentemente dalla legge.
D’altro canto per il conseguimento di siffatto tipo di giustizia (e cioè di una “giustizia” che non sia già prima la legge stessa) non è affatto necessaria la legge.
In effetti non c’è nessun bisogno di dire alcunché prima del fatto per fare giustizia. Si può fare benissimo giustizia anche dopo che si è verificato il fatto, dettando la regola per l’occasione, sicuramente con maggiore aderenza al caso e quindi con maggiori probabilità che si consegua quella che il giudice riterrà essere la giusta decisione del caso concreto.
Non per nulla si è tanto invocata l’equità, la cosiddetta giustizia sotto l’albero. E proprio questa esigenza di “giustizia”, non imbrigliata, imprigionata da regole preventive e vincolanti che ne impediscano la realizzazione in concreto, che ha determinato la presentazione dei numerosi progetti di legge di istituzione del Giudice di Pace.
Certo, si può osservare che, a questa stregua, la “giustizia” può essere fatta da un qualsiasi capo tribù, proprio come abbiamo visto per il bene comune, ed è così.

* * *

Quello che il capo tribù non può fare, perchè altrimenti non è più capo e la sua non è più una tribù, è di dettare delle norme di diritto. Norme che magari possono essere non giuste, o che magari possono tendere al bene di pochi e non dei più (e meno che meno di tutti), ma che dettando le regole per il futuro, ora per allora, in modo fermo ed irrevocabile, ne limitano il potere assoluto e ne fanno un uomo tra gli uomini.
Qualsiasi regime politico si dia un diritto inteso come tale e cioè diritto certo, che sia giusto o ingiusto, si autolimita in modo determinante, poiché comunque non potrà essere arbitrio.
Viceversa è evidente che se il diritto fosse soggetto a cambiamenti, si adattasse alle singole occasioni, non fosse insomma certo, non sarebbe più tale.
Insomma bene comune e giustizia possono essere scopi del diritto, ma non immediatamente e non necessariamente. Sono scopi che possono essere conseguiti con mezzi diversi, e che, nella misura in cui sono perseguiti con il mezzo del diritto, sono intrinseci e non estrinseci al diritto, che non ne può essere condizionato dall’esterno.
L’unico scopo proprio e soltanto del diritto, ben identificato e che si pone autonomamente all’esterno del diritto, condizionandolo, tanto che in assenza dello stesso il diritto non è più tale, è la preventiva (non contemporanea, non successiva) regolamentazione dei rapporti giuridici e cioè la certezza del diritto che, pertanto, non è il primo degli scopi del diritto, ma appunto l’unico scopo del diritto: il diritto stesso.

* * *

E poiché, come ho premesso, il mio è un discorso di un pratico, è bene dire esplicitamente che è rivolto a Giudici ed Avvocati per scongiurarli di smetterla con amenità come la giustizia “sostanziale”, che semplicemente non esiste; o come l’interpretazione “evolutiva”, che è tale solo nella direzione della barbarie o addirittura con autentiche “follie”, come la supplenza di, tecnicamente impossibili, carenze del potere legislativo.
Bisogna tornare, e rapidamente, alla pura e semplice interpretazione ed applicazione della legge, che è certezza del diritto e cioè al diritto, senza il quale possono esistere solo marionette impropriamente chiamate Giudici e impotenti, queruli e striscianti questuanti, pomposamente chiamati Avvocati.

Ferdinando Cionti

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Ferdinando Cionti
Ferdinando Cionti è avvocato a Milano ed è stato professore a contratto di Diritto Industriale per il Management presso l’Università di Stato di Milano Bicocca, facoltà di Economia, dipartimento di Diritto per l’economia. La sua concezione del diritto è sintetizzata nel saggio "Per un ritorno alla certezza del diritto", pubblicato su Libertates. Ha pubblicato numerosi saggi, tra cui "La funzione del marchio" e "Sì Logo" (Giuffrè). Per LibertatesLibri è uscito "Il colpo di Stato", presente nello Store di Libertates. Quale collaboratore dell’ “Avanti”, ha seguito quotidianamente le vicende di Mani Pulite.

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