“… Ci sono gli stessi uomini di vent’anni fa e non valgono nulla. Sanno solo insultarsi e non
capiscono di economia. Tremonti è un tramonto. Il Parlamento è pieno di massaggiatrici, di
attacchini di manifesti e di indagati. Chi è sotto inchiesta deve essere cacciato all’istante, al
minimo sospetto”
Licio Gelli, il Venerabile Gran Maestro della P2
Lunedì 15 marzo 2021 è uscito su La 7 il bellissimo documentario “Quando scoprimmo la P2” presentato dall’anchorman di provato talento Enrico Mentana. C’è un mistero che non potrà mai essere risolto: l’enigma di Licio Gelli. E qui c’è l’arcano del genio. Un fatto è certo: egli era misteriosamente in linea con lo Zeitstil, lo Spirito dei Tempi dove la ruota della fortuna che gira è una componente decisiva nella liaison dangereuse tra “autos nomos” ed “eteros nomos”: autonomia ed eteronomia del comportamento umano. Gelli aveva la terza media, ma – a differenza di quello che ha detto Ferruccio De Bortoli – non era ignorante: riuscì a correggere strada facendo la “hybris dell’autodidatta” se pur in maniera gelliana, e arrivò, non dico a scrivere un testo fondamentale – nell’analisi delle scienze politiche italiane – quale è stato il l’ultracitato Piano di Rinascita Democratica, ma a intuirlo come stato di necessità e opera d’arte insieme.
E, con l’umiltà che lo caratterizzava come accade nei grandi uomini che non hanno bisogno di mettere in scena l’arroganza, chiese aiuto – tra altri qualificatissimi tecnici e sapienti dell’ambiente universitario – a Michele Sindona per la realizzazione dello stesso: soprattutto sul versante dell’economia, la vera passione tanto di Gelli quanto di Sindona: e qui siamo veramente nella tragicommedia all’italiana ma anche tout court, poiché Sindona – il “mistero dell’intelligenza a corrente alternata”, come lo definì il finissimo Vincenzo Consolo – aveva sì un background culturale in senso classico superiore a quello del “volgare traffichino Gelli” (uso le stesse parole di Sindona ormai finito nella polvere, nelle tantissime: troppe interviste che gli fece Enzo Biagi: c’è un mistero anche in questa pagina nella storia della televisione italiana…); ma c’era anche nell’ex “salvatore della lira” – analogamente al Venerabile – il velleitarismo del megalomane che fa il passo più lungo della gamba. Il passo più lungo della gamba? Non è privo della sua grandeur.
Resta sullo sfondo, il fatto che il Piano di Rinascita non è mai stato attuato nel Belpaese del Gattopardo e il “pallino del privatismo dell’economia italiana” (come di se stesso disse molto onestamente Sindona, in carcere negli States per bancarotta fraudolenta) lo qualifica pur tuttavia come una requisitoria accademico-politica di alto livello, così come l’agognata separazione delle carriere tra pm e giudici versus il principio criminogeno dell’obbligatorietà dell’azione penale: Gelli lo aveva capito molto bene con la “follia lungimirante di Erasmo da rotterdam”, ancorchè nella sua contraddittorietà negativa da bandito che aspirava ad essere stateman proprio perché non lo era, e non aveva i requisiti per diventarlo.
Ma la P2 – letteralmente “Propaganda 2” – era un’associazione a delinquere ad alto livello, che aspirava a farsi Establishment imitandolo pagliaccescamente, ridicolmente poiché la classe dirigente tout court dell’Italia repubblicana negli Anni di Piombo era ostile al Mercato, nel senso anglosassone del termine. Una tragedia nazionale consumatasi al limite della bancarotta e del colpo di Stato. Anche l’Inghilterra era messa molto male, ma fu in grado di esprimere la Thatcher che noi non abbiamo mai avuto; l’ex materassaio di Arezzo che raccolse da Eugenio Cefis la direzione padrinale della sua loggia massonica segreta e illegale in accordo con il Grande Oriente d’Italia, si proponeva come il Charles De Gaulle italiano nella difesa dei valori atlantici dell’ordinamento capitalistico angloamericano in contrapposizione all’avanzata quasi inarrestabile dell’Unione Sovietica.
Il delinquente di professione, l’uomo d’onore – e Gelli faceva parte del livello riservato della mafia siciliana insieme a Roberto Calvi, Michele Sindona, Francesco Pazienza, Bruno Tassan Din, Umberto Ortolani, ecc…: tutti finiti male o quasi, da veri giocatori d’azzardo (azzardo senza fine) – vede l’orizzonte, saltando il porto.
Ma è attraversato dall’intuizione illuminante della Weltanschauung.
Era vero anche di Licio Gelli, entrato nei servizi segreti italiani con il beneplacito di Benito Mussolini in persona. E mai più uscito, come lui stesso amava ripetere.
Non fece saltare in aria la stazione di Bologna il 2 agosto 1980 con i suoi 85 morti e 200 feriti, non ammazzò Aldo Moro, non fece scoppiare la Banca Nazionale dell’Agricoltura il 12 dicembre 1969 e non progettò il golpe Borghese con Cosa Nostra e l’ndrangheta: ma non impedì che tutte queste cose insieme accadessero senza avere in mente alcun disegno razionalmente perseguito (sic!); addirittura non sapeva ragionare, come emerge dal bellissimo libro psicologicamente connotato di Piero Ottone Il gioco dei potenti edito dalla Longanesi: come dimostrò in maniera chiarissima il suo surreale arresto in Svizzera durante il ritiro goffo di banconote in grosso taglio.
Però il Venerabile una cosa la fece: nel maggio del 1982 prese parte a un incontro segretissimo nella villa di Flavio Carboni in Sardegna con Paul Casimir Marcinkus, Francesco Pazienza, Vincenzo Casillo e Pippo Calò per decidere l’omicidio del “banchiere di Dio” Roberto Calvi, che aveva chiesto in prestito a Cosa Nostra 1.200 milioni di dollari per finanziare (anche) la Solidarnosc di Lech Walesa in Polonia e la Tangentopoli del Sudamerica, e ricattava il Vaticano con il “fiato corto” del maniaco depressivo finito nella polvere. Basti vedere gli interrogatori al pentito Cillari nel libro I banchieri di Dio a firma del giudice istruttore Mario Almerighi e requisitoria del pm Luca Tescaroli, 17 ottobre 2013, in cui, tra l’altro, i due magistrati commentano la lettera autografa di Roberto Calvi del 5 giugno 1982 con cui ricattava Giovanni Paolo II).
“… Per questo gli assassini vanno cercati in Polonia”: parola di Venerabile Gran Maestro.
C’era della grandezza morale in Roberto Calvi, che ebbe romanticamente una “dirty relationship” con la (un tempo) bellissima Sabrina Minardi, amante del boss della Banda della Magliana Enrico De Pedis, presentatagli da Carboni, la quale ne fece un ritratto così preciso alla giornalista Raffaella Notariale, da risultare una testimonianza di primo mano (sic!): “Era un po’ nevrotico e molto generoso. Mi comperò una villa a Capri”; Sabrina Minardi andò a letto anche con il principe Carlo Caracciolo (“Hai fatto la porca con quel principe, eh… Tutta fatta sei!”, le disse una volta De Pedis – questa scena è stata ricostruita nella pellicola stupenda “La verità sta in cielo – Il caso Orlandi Tutto così incredibilmente vero da sembrare impossibile” di Roberto Faenza), e prelevò Emanuela Orlandi in un’automobile per consegnarla a Marcinkus: è stata la stessa Minardi a raccontare credibilmente questi fatti negli interrogatori della Procura di Roma, salvo poi inquinare lei stessa il suo racconto sulla scomparsa della Orlandi, dopo essere stata minacciata.
Così come corrisponde al vero che dal Quarto Potere il melanconico Enzo Biagi, fu il garante della trattativa “extra-ordinem” tra Flavio Carboni e la Santa Sede per la ricettazione della borsa di Roberto Calvi, con la mediazione di monsignor Pavel Hnilica: che la comperò per più di 6 miliardi di lire per conto del papa polacco: un particolare inquietante che emerge dai due libri scritti dal defunto giudice istruttore Mario Almerighi La borsa di Calvi e I banchieri di Dio.
Non è un bel quadro, d’accordo. Ma la vita ha un lato di tragedia, e a Gelli – che non aveva certo la classe di Sean Connery in James Bond – dobbiamo la permanenza contraddittoria dell’Italia nel blocco occidentale dentro l’Alleanza Atlantica e versus il Patto di Varsavia.
La strategia della tensione era il prezzo necessario alla democrazia che non è il sesso degli angeli, e ad evitare altresì la descente aux enfers del Belpaese nell’Unione Sovietica: che era povertà e miseria, come ricordava Indro Montanelli ad Alain Elkann.
Perché il fallimento è l’altra faccia del successo.
E la realtà è ambigua e complessa.
No time to die.
di Alexander Bush