L’inedito: il terremoto di Messina secondo Kocjubyns’kyj

Data:

del gaudio

Con questa traduzione dello scrittore ucraino ottocentesco Kocjubyns’ky, scarsamente conosciuto in Occidente, Salvatore Del Gaudio inaugura gli Inediti.

NOTIZIE PRELIMINARI

Fornirò alcune notizie preliminari sullo scrittore per quei lettori italiani che hanno poca dimestichezza con le opere letterarie ucraine.
Mychajlo Mychajlovyč Kocjubyns’kyj (ucraino: Михайло Михайлович Коцюбинський) nacque a Vinnycjail 17 settembre del 1864 e morì nella regione di Černihiv il 25 aprile del 1913. Fu allevato a Bar, nei pressi della cittadina di Vinnycja, ove frequentò la scuola elementare (1875 — 1876) e in altri luoghi della Podolia, regione in cui il padre svolgeva attività impiegatizia e, poiché era avvezzo al bere, cambiava spesso lavoro. Successivamente frequentò la scuola (media-superiore) presso il convitto religioso di Šarhorod (1876-1880) per poi continuare gli studi presso il Seminario Teologico di Kamjanec’-Podil’s’kyj, dai quale dovette desistere nel 1882 per una serie di concause. Seguirono anni di ristrettezze e difficoltà economiche.
Fin dai suoi esordi come scrittore espresse una chiara posizione a favore dell’idea nazionale ucraina. Non è un caso che fin dai suoi primi tentativi in prosa egli predilesse l’uso dell’ucraino rispetto al russo, allora lingua ufficiale dell’impero. Nei primi scritti, Kocjubyns’kyj descrisse aspetti di vita quotidiana ucraina, adottando un approccio che si potrebbe definire di “realismo etnografico”. Con l’accrescersi della sua perizia scrittoria, egli si affinò a tal punto da divenire uno degli scrittori ucraini di maggior talento che meglio seppero ritrarre l’impressionismo e il modernismo culturale dell’epoca.
L’autore predilesse il genere del racconto e, in particolare, quello del racconto breve. Il suo stile è inconfondibile per il gioco cromatico e le associazioni psicologiche che esso evoca. Le frasi sono spesso caratterizzati da brevi enunciati collegati per asindeto. Frequente è l’uso della metafora.
La sua opera, probabilmente più nota, è Fata Morgana, in cui si descrivono i conflitti sociali del villaggio ucraino. In numerosi dei suoi brevi racconti sono sovente presenti motivi italiani. Ciò è dovuto al profondo rispetto che lo scrittore aveva della cultura e lingua italiana e al fatto che avesse soggiornato, per motivi di salute, diverse volte in Italia: Messina, Capri ecc.
La traduzione riproposta di seguito è una breve narrazione o schizzo letterario raffigurante il soggiorno di Kocjubyns’kyj a Messina nei giorni lugubri del famoso terremoto che distrusse la città agli inizi del XX secolo (1908). Il titolo originale è Chvala Žyttju (ucraino: Хвала Життю), traducibile come “Inno/lode e/o ringraziamento alla vita”. Lo schizzo fu composto a Černihiv nel 1912, assieme all’altro racconto breve ambientato a Capri “Sull’Isola”. In qualche modo il racconto può essere interpretato come una sorta di presagio alla morte imminente dello scrittore (1913) ma anche come una speranzosa esaltazione al potere benefico della vita.

INNO ALLA VITA

di Mychajlo Mychajlovyč Kocjubyns’kyj
(schizzo)

Era trascorso poco più di un anno da quando il terremoto aveva ridotto la splendida Messina in un cumulo di macerie. Era primavera, il mare calmo e azzurro, così come il cielo. Il sole inondava i giardini di arancio sui clivi e io, mirando dal piroscafo il cadavere cinereo della città, non riuscivo a immaginarmi quella terribile notte, quando la terra con ira implacabile si era scrollata di dosso con leggerezza una città maestosa, così come un cane si scuote l’acqua di dosso dopo essere uscito da un corso d’acqua.
Dopo aver messo piede a terra, speravo di trovare il silenzio e il freddo di un grande cimitero e mi meravigliai tanto, quando scorsi un asino con le ceste piene sul dorso che avanzava scrupolosamente attraverso le pietre del lastricato consumato, tenendosi all’ombra delle mura distrutte dei palazzi, posti lungo il litorale.
Dietro di lui correva un ragazzino e con ardore siciliano gridava: – Cipolle, Cipolle!(1)
A chi si rivolgeva? A chi voleva vendere? Forse a quelle pietre che prima si trovavano saldamente attaccate in quel solido muro e che ora avevano preso a vivere una vita nuova?
Eppure era accorsa gente. Improvvisamente dalle strade, dal caotico cumulo di pietre, affluivano figure nere che, senza far rumore, calpestavano la terra calda. Venivano a piccole frotte o da soli. Si avvicinarono delle signore avvolte in lunghi veli neri e dall’espressione smorta e impassibile, seguirono dei soccorritori tetri, come se la loro espressione severa fosse stata imprigionata nei loro vestiti, neri fino alla cravatta di crespo. Il lungo pilone di ferro del lampione si chinava verso di loro in modo innaturale, quasi a osservarli con occhi vetrati. Da un lato il mare sciabordava dolcemente, dall’altro si ergevano i muri crepati dei palazzi privi di finestre e tetti, con le porte ricoperte a metà dai mattoni sgretolati. Nuovamente si trascinarono uomini in nero e donne silenti, come delle monache, come quando ci si reca a un funerale per offrire l’ultimo ossequio. Quanto più andavo avanti, tanto più m’imbattevo in quella folla lamentevole e più nitidamente avvertivo un senso di oppressione.
Dovetti evitare interi cumuli di pietrisco vario, travi, calce e pietre, tutte ammassate lì in mezzo alle strade, scavalcare gli squarci infitti nel terreno, simili ad avide fauci spalancate, saltare attraverso colonne di marmo e lanciare sguardi alle finestre da cui mi osservava il vuoto. E ancora da un angolo, tacitamente, si stagliava quella nera figura che mi veniva incontro con occhi silenziosi. Alla fine compresi che cosa mi turbava. Quegli occhi! Quegli occhi spaventosi, neri, terribili che avevano racchiuso in sé tutto l’inferno di quella notte di Natale(2) ed ora non riuscivano a vedere null’altro. Può splendere il sole, azzurreggiare il mare e il cielo, sorridere la gioia, ma quegli occhi spalancati, lucidamente scoloriti nelle loro grandi orbite, spostarono lo sguardo verso la loro stessa profondità, osservando, nella loro follia, i muri sconquassati, il fuoco e i cadaveri delle persone più strette. Mi sembrava che se li avessi potuti fotografare, sulla pellicola non sarebbero apparsi occhi umani bensì un quadro delle rovine.
Le strade laterali erano già state abbastanza ripulite. Mentre, su entrambi i lati, i muri rovinati delle facciate formavano un caotico accumulo di travi, materassi, libri, calcinacci, letti di ferro e corpi umani. Lì, dove ancora si mantenevano le pareti, reggendosi a malapena, attraverso le ampie crepe penetrava l’azzurro del cielo. A tratti, nelle porte frantumate, risaltavano i gradini solitari che conducevano solo Dio sa dove; gradini che più nessuno avrebbe potuto calcare. Da qualche parte, alto sotto il cielo, in un palazzo di cinque piani era crollata solo la parete anteriore, mentre l’abitazione centrale faceva bella mostra, come su una scena teatrale. Risaltavano la festosa tappezzeria, il letto di ferro, attraverso la cui recinzione pendeva un asciugamano, una fotografia sulla parete, l’immagine della Madonna alla testa del letto. Ma proprio questa intimità di una casa appartenuta ad altri, in cui trapelava ancora il tepore di una mano umana, sortiva un effetto dirompente su di me, più di tutti i cumuli di fumose macerie insieme.
Sapevo che la città era un cimitero e che, sotterrati sotto le macerie, vi fossero ancora qualcosa come 40 000 cadaveri e che nella massa pressata che mi circondava giacevano, in varie pose, bambini, donne e uomini morti asfissiati.
Cominciarono a scavare. Il gruppo dei soccorritori, ora curvandosi ora raddrizzandosi sul cumulo di macerie, rimuoveva, con movimenti regolari, i rottami. Un poliziotto sedeva da qualche parte in alto su un muro, avvolto nella sua mantellina, ripiegato su stesso mentre il suo berretto d’ordinanza scintillava al sole. D’un tratto si levò, portò la mano al berretto e lo allacciò in segno di rispetto. Io mi avvicinai. I soccorritori estrassero da sotto una trave una camicia da donna, poi tirarono fuori i piedi e li posero in un bacile. Ai piedi seguirono il torso, il ventre e il seno: furono di nuovo posti nel recipiente. Io mi allontanai. Avrei desiderato guardare il cielo. Ma in quell’istante notai ovunque, avvicendati sulle macerie, gruppi di soccorritori e, ogni secondo, un poliziotto si alzava e metteva mano alla visiera.
Sulla piazza davanti alla cattedrale si stava così stretti che a stento ci si poteva voltare. Questa era completamente ricoperta dal vecchio marmo della chiesa, dai frammenti dei pilastri e dagli ornamenti delle absidi. I santi mosaicati erano sparsi qua e là, decapitati o con i volti dimezzati, polverizzati sotto i piedi. L’antica fontana non aveva sofferto in modo particolare. Nondimeno da quella notte si era essiccata, come se avesse versato tutte le sue lacrime sul dolore altrui. Le bocche asciutte dei tritoni imploravano per la sete.
– Il signore osserva le nostre macerie?
Mi voltai. Accanto a me stava un ometto in nero con il viso smunto che, probabilmente, non molto tempo prima era apparso ancora rigoglioso. Le occhiaie giallognole protese sotto gli occhi penzolavano liberamente estendendosi, inopportunamente, fin sulle guance, proprio come il suo vestito, dilatato e logoro, che sembrava di un altro. Nella mano sinistra stringeva timidamente un mazzo di cipolle. Incrociai il suo sguardo. Ah, ancora quegli occhi!
– Sì, sì, signore (3) , ecco cosa ci è rimasto della nostra meravigliosa città. Chi non ne ha sentito parlare, non può neppure lontanamente immaginarsi quella notte d’inferno. Ci fu un tale boato, una cannonata spaventosa, come se tutte le forze del cielo, terrestri e marine si fossero messe a sparare all’unisono con le proprie armate. Io, ancora ora, avverto il rimbombo nelle orecchie … Ero ricco e felice, signore, avevo una moglie, quattro figli e un ufficio bancario. Adesso la mia famiglia e l’intera ricchezza giacciono sotto le macerie, mentre io ecco di cosa sono costretto a cibarmi!…
E con un movimento affettato da siciliano verace, questi sollevò la mano e scosse le cipolle in modo tale che il loro stelo attraversò le cineree macerie, rinverdendo sullo sfondo del cielo azzurro.
– Le mie case si trovano poco distante da qui. Forse il signore desidera dare uno sguardo?
Intorno alle sue labbra si formò una grinza di amarezza.
Io ringraziai e proseguii oltre.
Nei vicoli oscuri, come in un corridoio, non vi era anima viva; si avvertiva un senso di desolazione. A dritta e a manca non facevano che trasportare masse schiacciate di alberi, mattoni, carta, indumenti, lampade, mobilio e corpi umani. Si aveva l’impressione che tutti i poveri dei vicoli formassero barricate per non consentire aiuti. Sul capo pendevano muri distrutti, pronti a crollare a ogni istante. Per terra, all’ombra delle rovine sedeva una donna in lutto, dai capelli corvini scoperti, mentre sulle sue ginocchia giocava un bambino. Il suo sguardo mesto e gli occhi spenti indussero la mia mano a frugare nel borsellino ma la donna non accompagnò con un gesto il mio movimento. Essa si limitò a scuotere il capo in segno di diniego. Allora compresi che era una di quelle donne abituate a dare che non avevano ancora imparato a ricevere.
Di tanto in tanto passava qualche lavoratore con le mani ficcate in tasca e con le labbra serrate nel volto racchiuso per il disprezzo verso quella terra che non aveva saputo onorare il lavoro umano. Attraverso le finestre sfondate mi guardava una casa vuota, le tendine abbandonate in una tela di ragno, una lampada pendente su un soffitto crepato. Proseguii ancora.
Ora la mia attenzione era stata catturata da una sagoma immobile che somigliava a un vecchio solitario anneritosi dall’alto di quelle macerie casalinghe. Scorsi una schiena ricurva su se stessa, un vecchio cilindro sgualcito e le mani poggiate sulle ginocchia. Soltanto il pizzetto della barba biancastra risaltava da sotto quel cilindro e si stagliava sul petto nero e sui bottoni rigorosamente appuntati. Mentre scrutavo con tanta attenzione quell’imperturbabile quadro di tristezza e sgomento, sotto i miei piedi, improvvisamente, la terra vacillò con un sordo rimbombo, proprio come farebbe la schiena di una mucca che vuole sollevarsi.
Il terremoto! Lo capii subito. Rimasi a guardare, completamente pietrificato, il frantumarsi dei muri, come esseri viventi, che mi oscillavano sulla testa. E mentre mi attendevo che questi, da un momento all’altro, mi avrebbero travolto, tutta la mia vita mi balenò dinanzi in un attimo e, cosa sorprendente, io non distolsi mai lo sguardo dalla mesta figura di quel vecchio. In un minuto la terra si placò, i muri si ricomposero di nuovo, scrollandosi di dosso solo le pietruzze. Il nonno ricurvo non sollevò la testa neanche in quel frangente: il cilindro posava allo stesso modo, ricoprendo la barba a metà, la schiena era ricurva e le mani restavano immobili sulle ginocchia.
Non mi accorsi di come fossi finito a via S. Martino. Lì c’era gente, si avvertiva un senso di vita. Costoro avevano già fatto in tempo a piazzare degli angusti negozietti di legno, come scatole prese da sotto la pasta, e commerciavano cartoline per “forestieri” (4), pane e frutta. A tratti la vetrina, ove un nuovo velluto nero ricopriva orologi, fermagli, spilli e anelli, emanava una sensazione sgradevole. Tutta questa roba appariva vecchia e logora con le impronte delle mani lasciate dai padroni ormai morti; quel metallo spento celava in sé molte storie.
In un punto si accalcava la folla, per lo più composta da donne. Queste si facevano largo intorno a un carretto come un nugolo nero d’api. Un signore dall’aspetto distinto si sporgeva verso di loro, ergendosi dritto su un carro. Io, da lontano, notai il suo pettino bianco, il frac e le fedine rossicce sul viso da ministro. Egli mormorò qualcosa alla folla. Innalzava le mani al cielo, si protendeva verso la folla e la sua voce riecheggiava con convinzione e fervore. Pensai che fosse un predicatore che parlasse della vanità della vita davanti al volto spietato della natura, dell’inesorabilità della morte. Allora mi avvicinai alla folla.
Eppure come rimasi sbalordito quando mi resi conto che tutta quella roba davanti al carro non era nient’altro che dei contenitori vitrei con etichette dorate e che quell’elegante signore allungava verso la folla e verso il cielo proprio quelle boccette lucenti.
– Signore e signorine! … con una voce che proveniva dalla profondità del petto e dello stesso cuore. Signore e signorine! Voi qui vedete uno dei veri miracoli della cosmetica moderna. Questa pomata è il mezzo più sicuro per preservare la giovinezza e la bellezza. Ne spalmate uno strato sottile sul viso la notte e la mattina vi alzerete fresche, come una rosa avvolta nella rugiada mattutina … Ogni vasetto: quattro soldi …
Egli li calcava nelle mani delle donne, quindi raccoglieva un nuovo vasetto e lo esibiva sopra le teste degli astanti nel fulgore del sole di mezzodì.
– Signore e signorine! Bellezza e giovinezza a soli quattro soldi!..(5)
Le donne in nero, invece, ricoperte dal crespo del lutto, si accalcavano intorno al carretto. Ciò nonostante quegli occhi terribili, lucidi come la morte, che sporgevano dalle orbite e che rinchiudevano in sé la visione di quei muri sconquassati, del fuoco, dei cadaveri delle persone care e che avrebbero potuto rendere una fotografia della catastrofe, seguivano con cura ogni singola movenza di quel ciarlatano dai capelli fulvi, cogliendo con l’orecchio, ancor colmo del fragore di quella notte infernale e delle strida provocate dalla morte, il suo discorso appassionato.
– Signore e signorine! … Voi vedete uno dei veri miracoli … Solo quattro soldi per la giovinezza e la bellezza …
Io mi rivolsi verso la vallata. Da qualche parte, in lontananza, con fracasso e nugoli di polvere, abbattevano le pareti delle case pericolanti; ora qui, ora lì, nel mezzo di quelle macerie cineree, si levava un poliziotto e portava la mano alla visiera, rendendo al morto l’estremo saluto. Ma tutto questo già non mi stupiva più. A un tratto vidi lontani monti verdi avviluppati da un sole gaio, giardini di arance, l’infinito spazio color seta del mare azzurro e la mia anima cantò per questo cimitero un inno alla vita …

Maggio 1912, Černihiv.
M. Kocjubyns’kyj
Tradotto da Salvatore Del Gaudio (copyright)
(Перекладений СальватореДельҐаудіо)

* I versione è in attesa di pubblicazione nella miscellanea “Styl’ i pereklad” n. 2, Kiev 2015

Il racconto originale in ucraino è disponibile in internet (PDF) al seguente indirizzo:
http://ukrlit.org/kotsiubynskyi_mykhailo_mykhailovych/khvala_zhyttiu

 

  1. Nell’originale ucraino l’autore usa l’italiano ma al singolare: “cipolla”. Nella traduzione la parola è stata resa al plurale perché solitamente i venditori ambulanti così si esprimono. È probabile che Kocjubyns’kyj abbia usato il singolare perché è una forma che meglio si adatta alla morfologia ucraina oppure perché la parola non è stata pronunciata e/o udita distintamente.
  2.  Messina fu distrutta dal terremoto a Natale (1908).
  3. Nel testo originale in italiano.
  4. Nel testo originale in italiano. Il sostantivo ‘forestiero’ per indicare gli stranieri e/o turisti è in disuso nell’italiano contemporaneo.
  5. Nel testo originale la parola è translitterata dall’italiano al singolare.
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