L’Isis vista dal Cairo

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Isis fighters, pictured on a militant website verified by AP.
Tutto quello che non sappiamo dell’Isis: ed è tanto!

Il caso dell’Isis è emblematico. Tra reportage e programmi di approfondimento, non mi è ancora capitato di individuare traccia della complessità del fenomeno. Tranne rarissime e ostracizzare eccezioni, la vulgata vuole che siano degli esaltati di Allah in cerca di una improbabile restaurazione del califfato. “Mozzateste” senza pietà a cui è del tutto estranea ogni cognizione di civiltà (perlomeno come la intendiamo noi). Benissimo, nulla di più facile che qualificare di “terrorismo” l’evidenza di un simile fenomeno. Ma al di là dell’epifenomeno di questa banda di barbari restano decine di incognite che l’informazione “essenziale” sembra bellamente eludere. Ne elencherò solo alcune e solo per significare la mia perplessità sulla efficacia della cronaca come è generalmente intesa. 1) La cosiddetta “pulizia etnica” perpetrata da Isis è un mezzo o un fine? Si tratta di un obbiettivo o di uno strumento per giungere a soddisfare e realizzare altri interessi? 2) E quali sono questi interessi politico-economici? 3) È vero o non è vero che a formare le brigate di Isis siano state, come accaduto in Afghanistan con i talebani in funzione anti-sovietica, la Cia e il Mossad? 4) Le immagini cruente che provengono dal fronte di guerra sono tutte autentiche o esistono delle manipolazioni? 5) Come si spiega che l’esperimento di democratizzazione del Medioriente si sia trasformato nel trionfo della fitna (sedizione) e del caos? È ragionevole e secondo quali argomenti credere che un piano di destabilizzazione del Medioriente potesse rientrare tra gli interessi occidentali? 6) Nella cosiddetta “guerra asimmetrica” è possibile postulare l’esistenza di una controffensiva armata, da parte del “nemico”, che non assuma il carattere del terrorismo? Di fronte all’inefficacia della guerriglia è ideologico invocare il terrorismo come espressione della resistenza disperata? 7) Se la Storia procede per rivalse, come connotare la parola “resistenza” e come connotare la parola “offensiva”? Chi ha cominciato, quando e perché?
Queste sono solo alcune delle perplessità che mi hanno accompagnato negli ultimi mesi. Ma altre vi hanno fatto il paio, a partire dalla perplessità sul pacifismo.
In Egitto, dove vivo, si assiste da oltre un anno a una massiccia repressione del movimento, ora messo fuori legge, dei Fratelli musulmani. Eppure se in patria è ormai riconosciuto dalla maggior parte dei cittadini che chiamare “terroristica” una simile organizzazione non ha alcunché di estremistico, fuori dai confini dell’Egitto, in particolare in Europa, si continua a presentare il movimento come vittima della brutale forza militare di El-Sisi. Ora, parlando di pacifismo la domanda da porsi è: quale confine sancisce la differenza fra un terrorismo e l’altro? Quale misteriosa entità sovrintende alla “legittimazione” dei Fratelli musulmani e viceversa alla “deligittimazione” di Isis? Se la repressione è egiziana, nazionale, di Stato, di governo, si tratta di repressione, se viceversa è atlantica, sovranazionale, globale, coloniale, siamo di fronte a una difesa della democrazia? Naturalmente mi guardo bene dal dare una risposta, in poche righe, a tali interrogativo. Ma l’interrogativo rimane e rimane la perplessità. Forse l’informazione “essenziale” dovrebbe almeno suggerire, ogni tanto, i lineamenti di una possibile valutazione complessiva della complessità.
È probabile – ma altrettanto degno di riflessione e di approfondimento – che se ai Fratelli musulmani egiziani venisse concesso di estendere liberamente la propria azione a vocazione califfale, in un prossimo futuro alla repressione “preventiva” di El-Sisi dovrebbe avvicendarsi una repressione “concordata” con le forse atlantiche. Ma forse anche di questo è meglio non occuparsi, e prediligere viceversa quella sterile retorica secondo cui a decidere della liceità e legittimità delle repressioni siamo sempre, invariabilmente noi. Noi a cui nemmeno un palpito di vergogna è concesso di fronte alla degenerazione delle situazioni sociali e politiche dell’intero Medioriente. E che di fronte alla conversione del progetto di democratizzazione in un vero e proprio fallimento di ogni possibile conciliazione interreligiosa e interetnica ci limitiamo a ripetere che “forse” è stato commesso “qualche” errore.

Marco Alloni

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