Nel lucido e appassionato “Commento a Croce” ( Neri Pozza, Venezia 1955 e 1964, pp. 44-45 e 82-87 ), il filosofo triestino Carlo Antoni ( 1896-1959 ) elabora una sintesi di imperitura attualità, a proposito della trasparenza dei valori anche in momenti di “relativizzazioni dei principi”. “La cosiddetta ‘crisi dello storicismo’, di cui ha sofferto la cultura tedesca nei primi decenni del nostro secolo, è stata l’effetto di questa relativizzazione dei principi, valori e canoni, che si è andata compiendo nel corso dell’ Ottocento, ‘secolo della storia’. E si è fatta acuta, quando non solo i dogmi, ma anche la morale cristiana con le sue norme, sono stati sottoposti a critica storica, cioè ridotti a prodotti della storia. Sistemi metafisici ed etici, idee religiose e politiche, regole e stili dell’arte, costumi e istituti giuridici e persino le leggi della logica apparvero ‘fatti’ storici, che trovavano la loro ‘giustificazione’ nel momento storico, cui appartenevano. (..) E’ necessario anzitutto distinguere lo storicismo crociano, che si richiama al Vico, dallo storicismo tedesco che si può far risalire a Leibniz e a Herder. Nella sua più fine determinazione, in quella di Meinecke, lo storicismo tedesco è senso del molteplice, è attitudine ad accogliere la varia individualità delle epoche e delle nazioni e quindi la molteplicità dei valori. Si tratta, come si vede, d’un’ ‘attitudine’, la cui universalità consiste nell’ampiezza e duttilità dell’intelligenza, capace di capire o, per meglio dire, di trasferirsi nelle più diverse e opposte mentalità, nei più diversi climi morali. E’ senso altresì dello svolgimento in quanto è attitudine raffinata a seguire il lento modificarsi dei sentimenti e delle idee, cioè la storicità dei valori. Di fronte a questo pluralismo, lo storicismo crociano, nel suo spirito umanistico, afferma la sostanziale unità ed identità del valore nell’infinito suo attuarsi nei prodotti di tutte le civiltà e di tutte le epoche”. Spiega ancora meglio l’Antoni, unico filosofo italiano liberale – si badi – ad aver fatto parte della Mont Pelerin Society, al fianco di Hayek e Roepke, rimarcando la differenza anche linguistica tra “storicismo” italiano e “historismus” germanico, e affermando l’atto del giudizio storico come sintesi di universale e particolare. “La concezione crociana del giudizio è tutt’altra cosa. Essa esclude schemi, tipi, classi ideali, esclude, cioè, l’assoluto come canone, regola, modello. Non confronta il caso singolo con una legge. Per essa il giudizio è l’atto del pensiero che constata il reale e lo afferma. E’ questa identità vivente l’attualità della storia, l’universale atto concreto. Va da sé che tale identità non è matematica, quantitativamente esatta. (..) Non più A = A, bensì a = A. Il principio d’identità cessava di essere la formula dell’essere, negatore della vita e del mutamento, per divenire la formula del pensare, la formula che esprime appunto l’atto del giudizio, la predicazione della realtà di un soggetto, l’asserzione che tale soggetto è tale e quindi non altro. Il giudizio è atto d’identificazione, ed il principio d’identità altro non proclama che l’obbligo del pensiero di mantenersi coerente a questa sua funzione. Il male resta dunque male e non si trasforma mai in bene, anche se di esso la storia o la Provvidenza si serve, l’errore resta errore, anche se stimola lo spirito a sollevarsi alla verità, il brutto resta tale, anche se provoca il desiderio della bellezza, il dolore resta tale anche se talvolta la vita trionfa di esso e genera il piacere”. Così il valore dell’arte ( “sentire la poesia di Omero o la musica di Beethoven” ) e della coscienza morale ( la dottrina kantiana dell’apriori) restano universali, pur nel variare delle epoche e degli stili ( cfr. i miei “La distinzione e l’unità delle categorie”, Andria 1998;” Tempo e Libertà”, Manduria 1984; “Storicismo non è relativismo”, Bari 1999).
Contrariamente a quanto affermato da alcuni critici cattolici ( da Pietro Prini in giù, incluso Pietro Piovani ) o marxisti ( da Gramsci a Michele Abbate ), lo storicismo liberale non è giustificazione del fatto compiuto, né supina accettazione dell’esistente. Del resto, il classico principio liberale per cui il limite della libertà del singolo consiste nel rispetto della libertà dell’altro presuppone il conferimento di “valore” alla “dignità e bellezza della persona umana” ( Kant 1763 ): “valore” che non sarà per tutti di origine metafisica o creaturale ( come è per il credente, mémore dell’uomo “fatto a immagine e somiglianza di Dio”, recitano le Scritture ); ma resta tale sul piano del giudizio storico, singolo di soggetto e predicato, identità di particolare ed universale. Diverso è il caso della accezione data al termine da Karl Popper, per cui “storicismo” è, piuttosto, la “filosofia della storia” ( cfr. “Miseria dello storicismo”; “La società aperta e i suoi nemici”. I. “Platone totalitario”.II.” Hegel e Marx falsi profeti”): lo stesso Popper che, però, non manca di sottolineare la nobile funzione di opposizione ”liberale” svolta dal Croce nei confronti del fascismo, come riconosce nella Prefazione al suo capolavoro di dottrina politica.
Non a caso, nel 1933, l’anno dell’ascesa al potere di Hitler, Benedetto Croce, prima sulla “Critica” (XXXI, pp.235-236 ) poi nel volumetto degli “Orientamenti” (Gilardi e Noto, Milano 1934, pp.76-78: volumetto che non sarebbe fuor di luogo ristampare; e, alla fine, nelle “Conversazioni critiche”, Bari 1950,V, pp. 348-350 ), detta, nelle “Rettificazioni di concetti”, “Il cangiamento dei principi costitutivi”.
“Tra le storture che è dato notare più di frequente ai nostri giorni, leggendo quel che si scrive, ascoltando quel che si dice, una, tra le altre, merita di essere fermata e definita, la quale consiste nell’annunciare l’avvento di nuovi principi supremi del vivere e del comportarsi umano, di nuovi valori. Ora, che il mondo cangi, che si formino nuovi costumi, nuove leggi, nuove istituzioni, e nuovi pensieri e nuove fantasie, è cosa così ovvia, e sempre così ben presente a tutti, che non vale la pena neppure di accennarvi. Ma vale la pena di rammentare che il cangiamento delle cose si effettua appunto per la costanza dei principi, i quali costantemente operano a produrre il cangiamento: se i principi stessi cangiassero, niente più cangerebbe, il cosmo piomberebbe nel caos”. Conclusivamente: “ – Cangiate tutto quanto vi piace cangiare; fate, se sapete, nuova poesia e nuova pittura, formate nuove istituzioni, date nuovo assetto economico alla società: anche senza di voi, del resto, tutte queste cose cangeranno, o piuttosto, sono in continuo cangiamento. Ma procurate di riflettere per qualche istante e, se potete, di rendervi conto che la vostra asserzione di nuovi principi e valori contro gli antichi eterni principi e valori umani è tanto risibile, quanto quella di chi, per meglio cangiare, si accingesse a – cangiare il cangiamento !”
Sono gli stessi anni di “Il mondo va verso..”: “Non vi date dunque pensiero di dove vada il mondo, ma di dove bisogna che andiate voi per non calpestare cinicamente la vostra coscienza, per non vergognarvi di voi stessi”; la pagina che Mario Pannunzio, in guisa epigrafica, appose al numero di chiusura del “Mondo” nel 1966, e da me eletta nella “Lettura di Benedetto Croce” del ’76 ( “Non fu sì forte il padre”, Galatina 1978 ). Sono gli stessi anni in cui Croce confuta due pensatori tedeschi, lo Spengler e il Bergmann, con accenti davvero premonitori ( affidando all’Antoni un grande programma di ricerca per “Dallo storicismo alla sociologia” e “Storicismo e antistoricismo” ). Dello Spengler, a proposito del “Tramonto dell’occidente” e “L’uomo e la tecnica”, il filosofo della religione della libertà dice: “Senza un’alta e piena coscienza dell’umanità, senza un r o b u s t o e d e l i c a t o s e n t i r e m o r a l e, non si fa ‘filosofia della vita’, né ‘storia dell’umanità’: come conferma il nuovo libretto ( “Der Mensch und die Technik”, Munchen 1931 ), dello Spengler, che si potrebbe definire una immaginaria tela teorica tessuta sopra una reale bassezza o rozzezza d’animo. Per lo Spengler, l’uomo è un ‘Raubtier’, una bestia da preda, caratterizzata e conformata dalla ‘mano’, che è sempre mano ‘armata’, e perciò ‘tecnica’ “.
Di grande attualità, la critica della “tecnica”, caratteristica della “mano armata” e. per essa, di “reale bassezza e rozzezza d’animo”, sta dunque già. pienamente, in Croce, prima, e con più elevato tono, che nella tematica della heideggeriana “Gestellung”. Croce va invece, con la prontezza della “filosofia del giusto”, all’insorgenza della crisi, dei concetti di “decadenza” e di “tramonto dell’Occidente”. Noto, sul punto, che quanto ripete da qualche decennio Emanuele Severino sulla ripresa di Heidegger e Gentile, a proposito del “ritorno a Parmenide”, necessario – a suo avviso – per contrastare il dominio della Tecnica in quanto paradigma del “divenire”, riceve una naturale correzione, sul piano filologico, nella citazione di Croce; e su quello filosofico nella elaborazione del “Sofista” di Platone, là dove si dimostra che il “non essere” corrisponde, distinzionisticamente, a un nuovo e “diverso” modo di essere. Il catalogo delle navi, nella “Iliade” di Omero ( per fare un esempio ), se “non è” poesia, gli è perché è “altro” dalla poesia, è Scienza, descrittiva empirica e minuziosa; non già perché sia “nulla”, “non essere”. E’ l’atto del giudizio, che lo qualifica nella sua distinta e peculiare natura.Sì che esiste un “divenire” non quantitativo, per accumulo, tale da portare al “declino” o “tramonto” dell’Occidente ( la “terra della sera” ); ma anche un “divenire” qualitativo, qualificativo , per attività, e nelle “opere” ( “capacità di promuovere la vita”, come dice Goethe, ripreso da Thomas Mann e riportato dal Croce ). “Il vero si riconosce soltanto dalla sua capacità di promuovere la vita” ( l. cit., p. 103 degli “Orientamenti” ).
Il chiarimento ermeneutico è anche, sorprendentemente ( ma non più tanto se si considera che il “prevedere” è un “ben vedere il presente”, aggiungeva Croce ), d’ordine etico-politico. La “acrisia” delle tesi spengleriane viene dimostrata con puntuali deduzioni e previsioni dal filosofo della religione della libertà, su alcuni punti: 1.la “contraddizione onde la macchina col suo moltiplicarsi e perfezionarsi distrugge se stessa”; 2. “l’esaurimento dell’ardore e della inventività tecnica”, 3.”La civiltà industriale europea non ha saputo serbare per sé i segreti di fabbricazione e li ha comunicati a popoli inferiori, ai quali non ha mandato solo i suoi prodotti, come era nel suo interesse,ma ingegneri e scienziati e tecnici”.
Pare di intravedervi una fenomenologia della “globalizzazione”, della concorrenza dei mercati orientali e cinesi, e problemi connessi. Da parte sua, il Croce, difendendo la economia di mercato e il sistema della libera competizione, si spinge fino al punto da criticare il precedente libretto, “nel quale lo Spengler identifica la civiltà europea con quella dell’uomo nordico ossia germanico, e dichiara espressamente che tra i ‘Farbigen’, i ‘popoli di colore’ egli include ‘gli abitanti della Russia e di una parte dell’Europa meridionale e orientale-meridionale’ ( spagnuoli, italiani,balcanici ? ). Lo stolto ‘pangermanista’ non è ancora sparito dal mondo, sebbene ora sia passato dal tripudio alla tristezza, o piuttosto da una ad altra tristizia” ( “Orientamenti”, cit., pp. 101-102 ).
E, veramente, sembra talora di poter dire che siamo passati noi da una ad altra “tristizia”, per effetto del “pangermanesimo”, mai del tutto sopito nella storia della teoria e prassi economica e politica, dal momento che la definizione di ‘Farbigen’ o ‘popoli di colore’, che il Croce intuiva, esemplificando, per “spagnuoli, italiani, balcanici”, corrisponde all’attuale ‘pseudoconcetto’ dei P.I.G.S. ( portoghesi, italiani, spagnuoli e greci ), le cui difficoltà di débito sovrano vengono sciaguratamente intese a pregiudizio di costume o civiltà da parte degli Stati del Nord Europa (segnatamente, Germania, Norvegia, Svezia, Finlandia, Olanda ), e la cui matrice riposa in una forma di autoritarismo culturale, malcelatamente razzistico.
La pagina dei maestri ci illumina, in contesti indubbiamente mutati, ma con riferimento al paradigma “valori-disvalori”. Al qual proposito, troppo ghiotta è la occasione, per non menzionare la analoga critica che Croce rivolge al volume di Ernest Bergmann, “Spirito della conoscenza e spirito materno” ( “ Erkenntnisgeist und Muttergeist”,Breslau 1932 ), per indirizzarci a sempre provvisorie conclusioni. In forma non dissimile dallo Spengler, il Bergmann aveva esaltato la legge di selezione naturale, “donde uscirà il più forte, il più nobile e il più intelligente animale-popolo (‘Volkstier’ )”. La “bestia popolo”, come, in Spengler, la “bestia uomo”, “animale da preda”. E vagheggiava, sulle tracce di Bachofen, il Bergmann, una “nuova religione, la religione della Madre, di Maria madre di Dio, un nuovo matrimonio, non dell’uomo con la donna, ma della donna con coloro che la feconderanno e la renderanno madre, un nuovo socialismo non comunistico ma materno, sollecito della prole, un’educazione conforme e un nuovo allevamento per la sanità della specie e non per tirar su i deboli”. Tralasciando altri particolari ( la “Critica della ragion pura “ di Kant avrebbe dovuto chiamarsi “Critica della ragion impura” !), si vede bene – in tali deliranti affermazioni – quanto confutava Rosario Assunto del razzismo, una accozzaglia di “scientismo” e “mitologismo”, nella cui genesi affondano radici vagheggiamenti di stili di vita, concepimenti, matrimoni partenogenetici, e via. “-Ah , come c i s i a m o i m b e c i ll i ti i n E u r o p a! ( è la chiusura polemica di Benedetto Croce ) E mi esprimo, non senza umiltà in prima persona plurale, perché l’imbecillimento è contagioso, e ciascuno, vedendo intorno a sé tanta gente colpita dal male, deve temere che il contagio si sia attaccato in qualche misura anche a lui, o che possa attaccarglisi. Che Dio ci tenga le sue sante mani sul capo !” ( op. cit., pp. 104-110 ).
Segno i punti essenziali. Occorre ( nella ignoranza che si sparge nella scuola e nella Università ) un processo di osmosi culturale ed etico-politica per la memoria storica delle componenti del liberalismo, con ritorno ai testi e ai principi ( “Nuovi modi per la religione della libertà” ). Bisogna parlare, piuttosto che di “relativismo”, di “pluralismo”. A tanto indirizzano Max Weber e il “politeismo dei valori”; Max Scheler e la “filosofia dei valori”; Nicolai Hartmann e lo Herbart, per la relazione tra essere e dover essere, la “maestà dell’ideale” rispetto al “reale”; Benedetto Croce e il rapporto di unità-distinzione tra le categorie; lo stesso Norberto Bobbio di “Politica e cultura”e altri luoghi a proposito del “pluralismo”e della critica della dottrina gramsciana delle casamatte della società civile, oggetto di conquista da parte del novello Principe, che è il Partito ( es.: case editrici, giornali, cultura, fondazioni bancarie etc. ). E dire chiaro agli “illuminati” ma “energumeni” del nuovo irrazionalismo e convulso movimentismo: “Dimenticate Falstaff !”, la cui comico-tragica grandezza certo non vi appartiene ( ad onta di parentele strategiche o lobbistiche nel mondo anglosassone ); come – se può esser consentito pronunciare un leggero “Aforisma”- per “Dario Fo o Carlo Bo: / verdetti truccati al Premio Nobel di Frascati” ( “Aforismi a raccolta”, Bari 2011 ).
Giuseppe Brescia