MAI PIU’ MAXIPROCESSI (parte II)

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Risponde Marco Travaglio un po’ travagliato dal suo fanatismo, al magistrato cedendo alla trappola mortale dei paralogismi come è consuetudine dei fanatici, e dando del criminale a Woodcock:
“Caro dottor Woodcock, pubblico il suo intervento per contribuire al dibattito, ma senza condividerne neppure le virgole. Solo nel Paese dell’“entro e non oltre” e del severamente vietato poteva nascere il paradosso dell’ergastolo ostativo”. Se l’ergastolo è la condanna a vita (fine pena mai), dovrebbe essere a vita, punto, senza bisogno di aggettivi. Salvo che il condannato (per omicidio stragi, mafiose o terroristiche) si guadagni qualche sconto o beneficio collaborando con la Giustizia (solo i criminali chiamano “delazione” il dire la verità) e così si distacchi dall’organizzazione criminale di cui fa parte che finchè tace, lo considera un eroe e un capo a vita. L’omertà è un disvalore da sanzionare, non un valore da premiare. O no?”.
Chissà se Woodcock ha querelato Travaglio, ma i presupposti per la querela obiettivamente ci sono: Travaglio sembra preparato giuridicamente, ma non lo è in realtà come sul punto ha osservato il giurista Ferdinando Cionti: è un attore di provato talento, quasi alla maniera di Benito Mussolini.
Abbiamo alcune certezze sullo sfondo ormai acquisite irreversibilmente, mentre i guardiani dell’art.
112 della Costituzione si stanno scannando tra di loro – vedi il rinvio a giudizio per rivelazione di segreti d’ufficio a carico di Piercamillo Davigo e le polemiche con Nino Di Matteo, poi le rivelazioni di Luca Palamara, ecc. tutte sintomatiche della crisi d’identità di un sistema ideologicamente chiuso al cambiamento.
A 30 anni da Mani Pulite è bene ribadire che la Magistratura è ordine giurisdizionale dello Stato che non può processare il potere – in quanto essa stessa è emanazione del potere –, e la via giudiziaria alla criminalità dei colletti bianchi come “terzo livello” è un fallimento; il maxiprocesso a Cosa Nostra è illegale per ammissione dello stesso Giuseppe Pignatone (sic!), e poi vedremo attentamente come.
Il primo fallimento è stato la cosiddetta “operazione San Valentino” dell’83 coordinata dai magistrati Piercamillo Davigo e Francesco Di Maggio sull’ipotizzato reinvestimento di denaro sporco da parte dei boss di Cosa Nostra nelle holdings societarie della Bresciano Costruzione dell’inquietante Filippo Alberto Rapisarda: le Sezioni Unite della Corte di Cassazione presiedute dall’ “ammazzasentenze” Corrado Carnevale disarticolarono l’intero quadro probatorio nelle 233 pagine di motivazione della sentenza di assoluzione licenziata nel 1991, parlando del fatto che i vari Fidanzati, Attilio Monti, Virgilio, Mangano, Ugo Martello, ecc. si incontrassero, parlassero tra di loro, proponessero e concludessero affari nell’ambito di incontri che non erano né sporadici né occasionali, ma continuativi nel tempo “non ha il minimo indizio di mafiosità o certezza di illegalità” delle condotte esaminate: al massimo, il sigaro della sbruffoneria come in un film di Martin Scorsese.
Perché per l’“ammazzasentenze” nel senso più benigno della parola Carnevale, l’art. 27 della Costituzione è un ostacolo insormontabile: se la “responsabilità penale è personale”, non è oggettiva; se l’imputato non può non sapere, siamo alla costruzione del teorema che ricorda i famigerati “paralogismi” secondo Immanuel Kant: lo abbiamo già visto, le persone riprogettano la realtà a loro piacimento, anziché tenerne conto (e questo è particolarmente inquietante nel caso del magistrato); un importante contributo cinematograficamente, e non soltanto al problema è stato offerto dal film “Cadaveri eccellenti. E’ tutta colpa di Voltaire” di Francesco Rosi, forse la pellicola più matura del grande regista.
Il fatto più negativo che positivo è che l’insuccesso dibattimentale della “maxi-retata” San Valentino che si risolse nell’arresto di Mangano e soci nell’estate del 1983, fu bypassato dalla istruzione del maxiprocesso, che ripetè esattamente lo stesso errore e per gli stessi fatti (sic!), già oggetto della sentenza Carnevale reinterpretati questa volta nell’ordinanza dichiaratamente “extra legem” del maxi-ter – al limite del “ne bis in idem”: non conta l’individuazione della “responsabilità penale personale”, ma conta la Giustizia. E si può anche fare a meno delle prove.
Nessuno lo ricorda più, ma Corrado Carnevale bocciò prima tutta l’impostazione accusatorio-investigativa della San Valentino di Piercamillo Davigo e poi l’ordinanza del maxiprocesso.

La conseguenza dell’illegalità del maxi ter che – attenzione – è stata ammessa anche da Giuseppe Pignatone in una lunga riflessione un anno fa su “La Stampa” dal titolo “La lezione di Sciascia trent’anni dopo: il maxi processo può e deve fare giustizia” del 15 febbraio 2021, dove il magistrato riporta lo scetticismo di Leonardo Sciascia sul fatto che la mafia sia un potere piramidale e unitario secondo il “teorema Buscetta”, è che i Corleonesi attaccarono con le bombe lo Stato, e poi c’è stata la trattativa Stato/Mafia con il cedimento del Guardasigilli Giovanni Conso sulla mancata proroga del regime di carcere duro al 41-bis a 480 boss mafiosi – perché se si violano le regole, non si sa dove si va a finire (come è stato scritto da Ferdinando Cionti su Libertates); la parola a Pignatone, reo confesso:

“… In questo periodo, nella ricorrenza del centenario della nascita (8 gennaio 1921), sono stati pubblicati alcuni suoi scritti (di Leonardo Sciascia, ndr) che contengono severe critiche ai primi maxiprocessi celebrati contro le cosche e all’uso processuale dei cosiddetti “pentiti”, certamente ispirate dalla vicenda di Enzo Tortora, arrestato il 17 giugno 1983, nonché dall’esito del maxi-processo alla camorra. Ugualmente critica era stata, almeno inizialmente, la sua posizione sul maxiprocesso di Palermo. Lo stesso Sciascia, però, in un articolo pubblicato il 27 dicembre 1987, subito dopo la sentenza di primo grado, aveva commentato positivamente la decisione in cui, scriveva, “si intravede anzi quell’osservanza del diritto, della legge, della Costituzione che i fanatici vorrebbero far cadere in desuetudine”.
Un cambiamento di posizione notevole, su cui pesava non poco, come egli si spiegava, l’assoluzione di Luciano Liggio, “decisione rassicurante per chi è ancora affezionato al diritto e (che) quasi assurge a segno del tabula rasa che i giudici hanno saputo fare dei pregiudizi esterni, piuttosto clamorosi e pressanti”.

Lo scrittore, tuttavia, aggiungeva di non recedere “dall’opinione che i maxiprocessi mettono in
pericolo l’amministrare giustizia”, ribadendo poi di non aver mai creduto e di non credere “che la mafia fosse un fatto fortemente unitario e piramidale” (questo lo pensa anche lo scrittore James Ellroy in “American Tabloid”, nda). Posizioni tutte ribadite da Sciascia nei due anni successivi, fino alla morte avvenuta il 20 novembre 1989 (undici giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, ndr), ma che meritano di essere rimeditate alla luce dell’esperienza maturata nell’arco di questi tre decenni. E alla luce, altresì, delle modifiche normative, anche molto significative ma sempre nel rispetto dei principi costituzionali, imposte dalle manifestazioni di eccezionale pericolosità della mafia e dalla accresciuta consapevolezza di tale pericolosità da parte della società civile.

Dopo quello di Palermo, che allora fu una soluzione obbligata per riuscire a dimostrare l’esistenza stessa, la struttura e le regole di Cosa Nostra, ci sono stati altri maxiprocessi in varie parti d’Italia, certo non paragonabili per numero di imputati e complessità delle questioni da decidere, e peraltro sempre meno frequenti anche per l’impostazione del nuovo codice di procedura. Anche in questi casi, evidentemente ritenuti inevitabili in relazione alla situazione concreta, l’esperienza ha dimostrato che, con le necessarie risorse organizzative e con un adeguato impegno dei giudici e delle parti, è possibile rendere sentenze che tengano conto di tutte le risultanze processuali e, in primo grado, della diversità delle posizioni degli imputati.

Anche riguardo al ruolo processuale dei collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti, la situazione è ben diversa da quella degli anni 80…”.

Ma, caro Pignatone, l’illegalità primigenia non può essere sanata dalla legalizzazione ex post, cioè “strada facendo” – a meno che non si voglia fare giustizia al posto della Legge.
A costo di far crollare lo Stato con le bombe e gli attentati ai Georgofili, con il rischio di un assalto alla Pablo Escobar (mi riferisco anche al blackout telefonico di Palazzo Chigi con Carlo Azeglio Ciampi Presidente del Consiglio) e la mancata strage allo Stadio Olimpico?
Dura lex, sed lex: come scrisse lo stesso Francesco Cossiga in una lettera preoccupata a Giulio Andreotti (più spregiudicato del Presidente Cossiga), perché non poteva condividere l’incarcerazione “extra-legem” dei boss con molti anni di anticipo rispetto alla pronunzia della Cedu.
Osservava ancora Pignatone: “Il suo scetticismo (di Leonardo Sciascia, ndr) merita una rivisitazione: oggi oltre ai collaboratori di giustizia abbiamo le intercettazioni”; senza cedere alla trappola sofista di anteporre la forma alla sostanza, accuso Giuseppe Pignatone di essere “reo confesso”.
Abusando della pazienza dei lettori ma al contempo con la massima precisione possibile per la gravità degli argomenti trattati, aggiungo soltanto che sono convinto che Ferdinando Cionti, uno dei più autorevoli giuristi italiani al livello del defunto Loris d’Ambrosio – l’ex consulente giuridico dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano – abbia smascherato l’imbroglio del maxi-ter senza “factum probans” su Libertates, osservando quanto segue in contrapposizione al nauseante “politically correct”: “… Semplificando “brutalmente”, fino al maxiprocesso di Palermo, nei processi di mafia venivano condannati gli esecutori materiali dei delitti, ma quasi mai i mandanti, per la difficoltà di provare la loro colpevolezza.
La tesi accusatoria di Falcone/Borsellino fu che, considerata l’organizzazione gerarchica verticale di Cosa Nostra, i delitti dei “picciotti” fossero “automaticamente” riconducibili ai capi. Una tesi efficace, già proposta e respinta negli Usa (da Rudolph Giuliani, poi avvocato di Donald Trump, ndr) perché si scontrava con un antichissimo principio del diritto per cui la responsabilità penale è personale.
Dunque da una parte la ragion di Stato e dall’altra il diritto.
In primo grado prevalse la ragion di Stato, ma si temeva che in Cassazione – dove la prima sezione, competente per i reati di mafia, era presieduta da Carnevale, il magistrato più preparato e rigoroso d’Italia – l’ardita tesi accusatoria non sarebbe passata. Di qui la vergognosa persecuzione
di Carnevale scatenata dalla sinistra e la sua sostituzione con un magistrato più attento alla “giustizia” che al diritto (Arnaldo Valente, nda). Di qui la condanna dei capi mafiosi che la ritennero al di fuori delle regole”.

I giudici d’appello del famigerato processo alla “Trattativa” – che di per sé non è una notitia criminis – scrivono parole importanti da scolpire nella memoria collettiva: “Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa; e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico, deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da intenti solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato.
“Avere ipotizzato”, concludono i giudici della corte d’assise d’appello di Palermo nelle motivazioni di 2971 pagine della sentenza di assoluzione a carico dell’ex generale Mori, “anche nei confronti di eminenti personalità istituzionali, come il ministro Conso o il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, un concorso oggettivo alla realizzazione del reato o un cedimento alla minaccia mafiosa, con il risultato di dover compiere poi acrobazie dialettiche per affrancarli da un giudizio postumo di responsabilità penale (facendosi leva sulla genuinità delle intenzioni o sull’aver ignorato i retroscena più inquietanti) a parere di questa corte, oltre che ingeneroso e fuorviante, è frutto di un errore di sintassi giuridica”.
Sembra di sentir parlare Corrado Carnevale a proposito di certi magistrati.
E poco dopo, è arrivata la Cedu smantellando l’“ergastolo ostativo”: i due fatti sono collegati.
Se il cosiddetto “maxiprocesso ante litteram” – oggi abbiamo il protagonismo di Nicola Gratteri così simile all’inquietante John Edgar Hoover dell’Fbi – ha contribuito a scardinare l’incolumità della collettività nazionale, non è forse arrivato il momento di metterne in discussione l’eredità?
Il “papello” di Vito Ciancimino – ammesso che sia esistito – e che però è provato soltanto ai sensi dell’ex art. 192 del codice di procedura penale, era scritto bene.
L’affectio societatis giuridicamente parlando non esiste. Esiste la mentalità mafiosa e non è cosa buona.
Mai più maxiprocessi, ieri Buscetta oggi “Rinascita Scott” bocciata da Otello Lupacchini.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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