Un saggio di Giuseppe Brescia sul Manzoni di “La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859”
Wofgang Goethe ammoniva spesso: “Non chiedetevi se siete d’accordo in tutto, ma soltanto se procedete n e l l o s t e s s o s e n s o”. Della crociana “religione della Libertà”, esistono nella storia delle idee varie anticipazioni, dal carme “Dei sepolcri” di Ugo Foscolo agli “Inni civili” di Alessandro Manzoni, e dalle “Révolutions d’Italie” del repubblicano francese Edgar Quinet sino ai ‘prolegomeni’ giovanili di Lauro De Bosis ( 1901-1831 ), prematuramente scomparso nel viaggio di ritorno dal volo di protesta su Roma ( chi non voglia risalire alla Canzone “All’Italia” di Francesco Petrarca, o ad alcune tematizzazioni del “Principe” di Niccolò Machiavelli, sulla traccia del “Come se Dio ci fosse” di Maurizio Viroli ).
Mi fermo ad una più larga e rinnovata comprensione ( oltre che della “Storia della colonna infame” ) di uno degli ultimi scritti manzoniani, il saggio ( peraltro lasciato incompiuto ), “La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859”, cui il gran lombardo attese tra il 1864 e il 1869. Già l’epigrafe della “Introduzione”, desunta dalle Odi Olymp. I di Pindaro, costituisce emblematico e fulgido esempio di “giudizio prospettico”: “Dies vero subsequentes / Testes sapientissimi”. “I giorni e tempi susseguenti / furon i più saggi testimoni degli accadimenti interpretati”.
Il felice esordio mi ha sempre ricordato il caso che Raffaello Franchini, nel capitolo sesto “Il giudizio del futuro” della propria “Teoria della previsione” ( Giannini, Napoli 1972, pp. 135-136 ), trae dal libro di Rosario Romeo, “Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale” ( Torino 1963, p. 232 ): “Si apre così la fase culminante del Risorgimento: quando iniziativa popolare e iniziativa monarchica e liberale si trovarono di fronte nelle loro manifestazioni più mature e più alte. Con l’impresa garibaldina la guerra d’insurrezione, a carattere insieme nazionale e democratico, raggiunge la sua forma esemplare, nel nome e nella figura del condottiero, nello spirito e nella qualità dell’impresa, nell’epica della vicenda; mentre si può dire che mai lo sforzo cavouriano di avviare la rivoluzione nazionale entro le linee della concezione liberale e moderata, lo sforzo cioè di ‘diplomatizzare’ la rivoluzione, abbia raggiunto la complessità e la genialità che si manifesta durante le vicende dell’anno decisivo”. Così il Romeo. E Franchini commenta: “Si tratta di una serie di giudizi proiettati decisamente al di là del fatto e della serie di fatti narrati o da narrare, di un incremento della storia passata nel e attraverso il presente e dunque di un suo innalzamento verso il futuro, vale a dire verso ciò che gli eventi ancora non erano quando si verificarono. Per rendersi conto di codesto carattere progettante e previsionale del giudizio storico, anche quando suo oggetto sono eventi tutti accaduti, occorre saper correggere l’illusione ottica che proviene da suo dirigersi verso eventi non futuri ma passati, non più prevedibili perché già accaduti. Eppure il giudizio si rivolge verso il non essere degli eventi accaduti, che è per l’appunto il loro futuro, cioè l’acquisizione progressiva di sempre nuovi, più ricchi e profondi significati raggiunti appunto attraverso l’indagine storiografica”. E’ ben per questo che ho tradotto la classica epigrafe manzoniana, al “Testes sapientissimi”, detto a proposito dei “Dies vero subsequentes”, come “i più saggi testimoni degli accadimenti”, non solo meramente “narrati”, ma proprio perché “narrati in prospettiva”, come “interpretati”. Infatti, per reperire il nesso tra passato presente e avvenire negli accadimenti storici, bisogna evidenziare il filo che li ricongiunge: il che richiede non la mera “narrazione”,ma la “narrazione” illuminata dalla “interpretazione”, e così “interpretata”. ( v. anche di Raffaello Franchini, “Interpretazioni da Bruno a Jaspers”, Giannini, Napoli 1976, da me stesso investigate ). Del resto, già Leibniz aveva definito gli uomini nel tempo, “Carico di passato, Gravido dell’avvenire” ( prodromo della ermeneutica dello storicismo ).
Ora, Manzoni adempie appunto a siffatto sforzo, teso a evidenziare ( con ogni rigore filologico e documentazione storica, oltre che con la concatenazione serrata dei giudizi ) i “più ricchi e profondi significati raggiunti attraverso l’indagine storiografica”, a proposito delle rimarchevoli differenze tra “La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859”, differenze che si sarebbero vieppiù acclarate proprio nello svolgimento e nelle conseguenze degli accadimenti successivi.
Il motivo per cui non riuscì a finire il saggio, arrestato alla Parte prima, risiede proprio in questa ragione, nella documentata ricerca di “più ricchi e profondi significati raggiunti”, pur contenendo il grande Alessandro già nella mente tutte le premesse della Seconda Parte, dedicata alla “Rivoluzione italiana del 1859”. Ne fa fede la penultima lettera del Manzoni “A Giuseppina Alfieri”, da “Milano, 27 febbraio 1873”, sfuggita all’ edizione delle “Lettere” in tre volumi curata da Cesare Arieti ( Adelphi, Milano 1986 ) e recuperata da Narciso Nada ( “Due lettere inedite di Alessandro Manzoni”, in “Nuova Antologia”, fasc. 2200, ottobre-dicembre 1996, pp. 227-229 ):
“Gentilissima Signora, Per il vivo e troppo giusto desiderio di renderLe finalmente i tomi del ‘Moniteur’ così graziosamente prestatimi da Lei, ho domandato a Brera se ci si trovavano i corrispondenti. Ma, essendomi risposto di no, mi trovo ridotto a fare faccione e a chiederLe il permesso di servirmi, come fo da tanto tempo, de’ suoi. La risposta mi potrà esser data dall’eccellente comune amica Clara Maffei. Mi scusi e si degni di credermi Suo Devotissimo
Alessandro Manzoni”.
Manzoni morirà il 22 maggio 1873: e in questa, e nell’ultima lettera a Luigi Longoni, dimostra di aver ancora bisogno delle annate del “Moniteur”, per dimostrare al meglio la deduzione di alcuni passaggi, all’interno del giudizio d’insieme, già anticipato in premessa ( cfr. anche Natalia Ginzburg, “La famiglia Manzoni”, Einaudi, Torino 1983, ‘passim’).
La tesi d’insieme precisa: “Ma, tra avvenimenti così vasti e così complicati, si devono necessariamente trovare anche delle differenze che tocchino l’essenza. E due principalissime ci par di vederne in due de’ più gravi effetti della prima di quelle due Rivoluzioni, e de’ quali la seconda potè andare immune. E furono: l’oppressione del paese, sotto il nome di libertà; e la somma difficoltà di sostituire al Governo distrutto un altro Governo, che avesse, s’intende, le condizioni della durata. A dimostrare una tale diversità d’effetti tra le due rivoluzioni, e a indagarne le cause, è destinato il presente scritto” ( cfr. “Scritti storici”, Universale Barion, Milano 1942; e “Una patria per Renzo e Lucia”, “LiberalLibri”, 1995, oltre che nella Edizione Nazionale delle “Opere” ).
Sempre nella “Introduzione”, il Manzoni pone le basi della propria interpretazione: “E per ciò che riguarda la Rivoluzione Francese, il primo ( i.e.: degli “effetti” ) è sufficientemente indicato dal nome di ‘Terrore’ dato e rimasto a una fase non breve di essa: nome che, applicato a un’intera popolazione, presenta da sé l’idea dell’oppressione più forte e più universale che si possa immaginare, cioè d’ un’ oppressione che pesi anche su di quelli che non siano colpiti direttamente, e levi agli animi il coraggio e fino il pensiero della resistenza. Del resto, la ragione, per cui un tal nome fu dato a quella sola fase, fu perché in essa la cosa era arrivata al colmo. Ma, come è chiaro per chiunque voglia dare un’occhiata ai fatti, il sopravvento di forze arbitrarie e violente era già principiato, quasi a un tratto con la Rivoluzione rattenere, nel mezzo d’attentati sanguinosi e impuniti sulle persone, una quantità di pacifici cittadini dal manifestare, non che da sostenere i loro sentimenti, e a imporre a molti, più onesti che risoluti membri de’ Corpi e legislativi e amministrativi e altri, creati o lasciati formarsi dalla Rivoluzione medesima, l’assenza o il silenzio, per arrivar poi a imporre, con un successo più indegno, la parola e il voto. (..) Il secondo degli effetti indicati è più che abbastanza attestato, nella sua generalità, dal fatto di dieci Costituzioni nello spazio di sessantun anno”. Dove Manzoni riporta in nota 1) la serie della dieci Costituzioni, via via elaborate nel tentativo di risistemare l’assetto legislativo e amministrativo, compromesso dal “Terrore” e dai suoi “effetti”: “1791, 1793, 1795, 1799, 1804, 1814, 1815, 1830, 1848, 1852”.
Invece: “Per ciò che riguarda l’Italia, è una cosa anche più manifesta che la sua Rivoluzione non portò né l’uno né l’altro di que’ due tristissimi effetti”.
“Qui, infatti, la libertà – precisa il Manzoni-, lungi dall’essere oppressa dalla Rivoluzione, nacque dalla Rivoluzione medesima: non la la libertà di nome, fatta consistere da alcuni nell’esclusione di una forma di Governo, cioè in un concetto meramente negativo, e che, per conseguenza, si risolve in un incognito; ma la libertà davvero, che consiste nell’essere il cittadino, per mezzo di giuste leggi e di stabili istituzioni, assicurato, e contro violenze private, e contro ordini tirannici del potere, e nell’essere il potere stesso immune dal predominio di società oligarchiche, e non sopraffatto dalla pressura di turbe, sia avventizie, sia arrolate: tirannia e servitù del potere, che furono, a vicenda, e qualche volta insieme, i due modi dell’oppressione esercitata in Francia ne’ vari momenti di quella Rivoluzione; uno in maschera d’ autorità l e g a l e, l’altro in maschera di v o l o n t à p o p o l a r e”.
Ancora una volta, a proposito del carattere “liberale” della Rivoluzione italiana, Manzoni sottolinea e precisa: “E ne risulterà, con uguale evidenza, che questa stessa legittimità fu la ragione, come era la condizione necessaria, per cui essa sia potuta seguire senza oppressione del paese, e abbia potuto raggiungere di primo tratto il suo scopo, senza trascinare il paese medesimo, come accadde nell’altra Rivoluzione, in una sequela di cambiamenti, quale in male, quale in bene; ma che, con la sola loro pluralità, vengono tutti insieme a significare un gran male. Fu, infatti, il sentimento del loro diritto che produsse negl’ Italiani quella generale concordia, la quale prevenne anche l’occasione e la tentazione d’opprimere. Non dico la n e c e s s i t à, perché questa non può mai essere altro che un pretesto, o d’uno o d’alcuni, ai quali sia necessario, per conto loro, d’opprimere una popolazione che non voglia fare ciò ch’essi vogliano: n e c e s s i t à tanto allegata dagli autori de’ fatti più atroci della Rivoluzione Francese e dai loro apologisti, e che era stata così bene chiamata dal Voltaire ‘ l a s c u s a d e i t i r a n n i’ “.
Manzoni, che – come scrisse il De Castris ( “Il Manzoni tra ideologia e storicismo”, Bari 1962; “L’impegno del Manzoni”, Sansoni, Firenze 1968 ) – possiede una cultura “per tre quarti francese”, difende poi la Rivoluzione italiana dall’accusa di esser dipesa dall’aiuto della Francia: “E se anche la nostra nova vita nazionale fosse in tutto dovuta a questo, a che gioverebbe il negarlo ? Ma che dico ? l’ipotesi stessa è assurda. La vita d’una nazione non può essere un dono d’altri. E’ bensì vero che una nazione divisa in brani, inerme nella massima parte, e compressa da una preponderante, ordinata e vigilante forza straniera, non potrebbe da sé rivendicare il suo diritto d’essere: e questa è la sua infelicità, e un ricordo di modestia. Ma è vero altresì, che non lo potrebbe nemmeno con qualunque più poderoso aiuto esterno, senza un f o r t e v o l e r e e uno sforzo corrispondente della sua parte: e questo è il paragone della sua virtù, e un giusto titolo di gloria, e insieme un motivo di f i d u c i a n e l l’ a v v e n i r e, quando lo sforzo sia coronato dal successo”.
Ma per intanto, il Manzoni rende onore alla citazione, fruttuosamente assimilata, dal poema epico del periodo inglese, celebrativo della politica di tolleranza religiosa di Re Enrico IV, la “Henriade”, “chant X”, dell’illuminista Voltaire, maestro in sede ermeneutica anche se criticabile per l’astrattezza dottrinaria del suo “antistoricismo”. “Qu’il impute, s’il veut, des désastres si grands / à la necessité, l’excuse des tirans” ( ‘Che imputa, se lo vuole, dei disastri così immani alla necessità, vera e propria giustificazione dei tiranni’).
Molte volte il Manzoni si riferisce a Voltaire, non per la di lui “ideologia”, ma per gli spunti di “verità” storicistica, che in forza “ermeneutica” egli ritrova nelle sue opere. E’ quel tratto di onestà geniale, non solo a questo ma anche ad altro proposito, che fu oggetto di studio e lungo amore, da parte di Mario Pannunzio e Leonardo Sciascia, Attilio Momigliano e Luigi Russo, Giovanni Getto e Geno Pampaloni, Alberto M. Ghisalberti e Giorgio Rumi ( per menzionare solo alcune “vette” della storia delle interpretazioni non solo letterarie, ma etico-politiche ),
Nello sterminato Epistolario, François Marie Arouet Voltaire è citato nel I° volume delle “Lettere” ( ed. Arieti, Milano 1987, pp. 107, 173, 174, 260, 452, 458, 467, 480-482 ), e nel II° ( p. 49 ): segnatamente per lo “Zaire”.
“A Charles Swan”, Pastore protestante inglese provvisoriamente stabilitosi a Pisa, che i 7 gennaio gli aveva scritto lodandolo per la sua difesa dello Shakespeare, da “Milano, 25 gennaio 1828”, Manzoni rispondeva: “E un tempo ch’io me la pigliavo più calda che non adesso per la poesia e pei poeti, non le so dire quanta rabbia mi facessero quelle così rabbiose e così inconsiderate sentenze di Voltaire e de’ suoi discepoli sulle cose di Shakespeare. E forse più ancor delle ingiurie mi spiaceva quel modo strano di lodarlo dicendo che, in mezzo a una serie di stravaganze egli esce di tempo in tempo in mirabili scappate di genio: come se la voce del genio che in quei luoghi leva, per così dire, un grido, non fosse quella stessa che parla altrove; come se la stessa potenza, che ivi fa di sé una mostra straordinaria, non si mostrasse, con meno scoppio, ma con maravigliosa continuità, nella pittura di tante e tanto varie passioni, nel linguaggio di tanti caratteri e di tante situazioni, così umano e così poetico, così inaspettato e così naturale, linguaggio cui non trova se non la natura, nei casi reali, e la poesia nelle sue più alte e profonde inspirazioni; come se la stessa potenza non apparisse nella scelta, nella condotta, nella progressione degli avvenimenti e degli affetti, nell’ordine così negletto in apparenza e così seguito in effetto, che uno non sa se debba attribuirlo a un mirabile istinto, o ad un mirabile artificio: o piuttosto v’è straordinariamente dell’uno e dell’altro, etc. etc. E appunto contro quel sentimento di Voltaire ( sul quale del resto è stato detto da altri prima di me meglio ch’io non saprei mai dire ) io me la son voluta prendere con quella mia frase ironica; la quale, intesa da lei in senso proprio, non maraviglia che l’abbia così scandalezzata. (..) Ma io veggo ch’Ella domanda misericordia, e non voglio esser crudele: ridurrò dunque la pena allo stretto necessario; o, per uscir di scherzo, la pregherò di guardare nell’edizione fatta costì da codesto Sig. Capurro di varie mie corbellerie, i luoghi di quella lettera, dove è parlato di Shakespeare. E sono alla pag. 409, un piccolo confronto tra il concetto generale dell’ ‘Othello’, e quello della ‘Zaira’ di Voltaire”.
Charles Swan fu così lieto del chiarimento manzoniano, che ne premise la lettera alla propria traduzione, pubblicata anonima, in lingua inglese dei “Promessi Sposi”; là dove, al Capitolo VII, il Manzoni aveva ironicamente ripreso la assurda definizione data dal Voltaire dello Shakespeare, “Un barbaro che non era privo d’ingegno” , già confutata dal Baretti. “Tra il primo concetto d’una impresa terribile e l’esecuzione di essa, ( ha detto un barbaro che non era privo d’ingegno ) l’intervallo è un sogno pieno di fantasmi e di paure”.
Noterò una curiosità: la distinzione volterriana di parti geniali e parti non poetiche nello Shakespeare sembra ritenere un tratto simile, come di sicumera intellettuale, alla distinzione crociana di “poesia” e “non poesia”, fin nei sommi autori ( Dante, Manzoni, Goethe ). Addirittura, il giovane Croce, studioso di Goethe a Napoli, dice che, nel “Viaggio in Italia” del proprio “Alt-Vater”, siano presenti “perle miste a di molta arena”, essendo il Goethe, giunto agli apici della notorietà, uomo cui non bisognasse prestar credito in tutto e per tutto, nelle sue affermazioni ( v. il mio “Croce inedito”, del 1984, Sezione prima, a proposito a proposito dei primi scritti goethiani pubblicati da Croce a Trani, presso il tipografo Valdemaro Vecchi, editore della “Rassegna Pugliese”. Senza pretende minimamente di riaffrontare la complessa questione, in altra sede investigata grazie alla categoria del “tempo” come “intensità” di espressione, anche alla luce delle continue revisioni metodologiche lavorate dal Croce, “Così va spesso il mondo; anzi così andava nel secolo decimosettimo”, o “decimottavo”, verrebbe voglia di postillare il celebrato motto manzoniano ( Ma altri casi ricorrono nel Novecento del secolo scorso: Virginia Woolf, detestava James Joyce; Hannah Arendt, Arthur Koestler; esegeti varii del tempo e detrattori della “memoria”, s’atteggiano talora a “superatori” di Marcel Proust, e così via ).
Comunque sia di ciò, la questione del rapporto Manzoni – Voltaire fu toccata anche da A. De Marchi, “Dalle carte inedite manzoniane del Pio Istituto pei Figli della Provvidenza in Milano” ( Milano, Figli della Provvidenza, 1914, pp. 66 sgg. ) e da P. Bellezza, “Curiosità manzoniane” ( Vallardi, Milano 1951, pp. 84 sgg. ). Ma il Manzoni, nella lettera a Tommaso Grossi, l’autore del “Marco Visconti”, “Milano, Settembre 1835”, si conferma interessato – oltre che alle prediche del Massillon ( 1663-1742, oratore sacro a Versailles ) e del padre Paolo Segneri (1624-1694, Gesuita, professore al Collegio Romano )-, alla “Zaire” di Voltaire: “Il volume di Voltaire, che ha la ‘Zaira’: nei drammatici, a sinistra di chi è nella nicchia”, evidentemente necessario per la ripresa dell’ “Otello” shakespeariano” ( cfr, “Lettere”, II volume, ed. Arieti, cit., n. 454, p. 49 ).
La religione della libertà costituisce, certo, l’autentico ‘fil rouge’ di collegamento tra i vari scritti manzoniani, dai primi versi giovanili, ancora sotto l’ispirazione illuministica e giacobina, come quelli “Contro il Padre Gaetano Volpini” (1798-1801), “Il padre fra’ Volpino / che pien di santo zelo / suda sui libri ascetici / e veglia sul Vangelo, / perseguita gli eretici, / di Bayle e di Calvino, / i dogmi iniqui e pazzi, / il seme giacobino”, e “Del trionfo della Libertà” (1801); alle Odi e Canzoni di ispirazione patriottica, “Fin che il ver fu delitto”, per il linciaggio del Ministro Prina, postuma col titolo “Aprile 1814”, “Il proclama di Rimini” ( Aprile 1815 ), e “Marzo 1821” ( “Soffermati sull’arida sponda, / volti i guardi al varcato Ticino, / tutti assorti nel novo destino, / certi in cor dell’antica virtù, /han giurato. Non fia che quest’onda / scorra più tra due rive straniere: /non fia loco ove sorgan barriere / tra l’Italia e l’Italia, mai più”); dallo stesso “Cinque Maggio”, dettato in morte di Napoleone Bonaparte ( “Bella Immortal ! Benefica / fede ai trionfi avvezza !/ Scrivi ancor questo, allegrati; / che più superba altezza / al disonor del Golgota / giammai non si chinò” ) alle “Osservazioni sulla morale cattolica” (1819-1820 ) alle varie stesure dei “Promessi Sposi” ( prima “Fermo e Lucia”, del 1821, 1827 e 1842 ), con la Lombardia scenario di potenti giochi tra le varie potenze europee, la viltade di don Abbondio e il travaglio della conversione dell’Innominato, la critica dell’inautentico ‘latinorum’ di Azzeccagarbugli e dell’astratta erudizione di don Ferrante, la trepidazione dell’attraversamento dell’Adda da parte di Renzo e la condanna della rivolta di massa come della diceria degli Untori; dalla “Lettera ad Alphonse de Lamartine” ( “Sulla causa della indipendenza e della unità italiana”, del 6 aprile 1848 ) alla lettera sulla “Concordia” del 16 settembre 1848 ( “Indipendenza politica e liberismo economico”: a proposito della quale è agevole osservare come sia falso quanto asserito non pur una volta da Sergio Ricossa, pel quale il termine “liberismo” sarebbe una invenzione impropria e contemporanea della dottrina politica italiana, a proposito della nota controversia tra Croce e Einaudi). Chi non voglia opinare che in lingua anglosassone non esista il termine ‘liberismo’: data e non concessa la qual cosa se ne dovrebbero comunque chiarire le implicazioni ideologiche, dal momento che – scriveva Antoni in “Libertà indivisibile” del 1966- l’empirismo inglese forma la filosofia del liberismo, e la medesima area semantica era coperta mutuando – in quella cultura – il canone ‘laissez-faire” – “laissez-passer”.
“Il ‘liberismo’ che sorse come scienza economica in Inghilterra nel XVIII secolo, è prima di tutto una scoperta filosofica nonostante che i libri di testo di storia della filosofia non lo menzionino affatto. In un saggio assai noto, il Croce dimostrò che le due scienze ‘secolari’ sorte nel XVIII secolo – l’economia e l’estetica – sono in un certo modo correlate, in quanto entrambe contengono la giustificazione di facoltà sensibili, e per sopravvivere devono svincolarsi dalla filosofia morale. In realtà il rapporto era in origine molto più stretto. Il culto dell’estetica sorse anche in Inghilterra nel XVIII secolo come l’opposizione alle ‘regole’ che governavano la poesia razionale, e si fece paladino entusiasta della grande scoperta – il genio fruttifero della fantasia e l’ ‘originalità’ creativa. Avvenne allora che l’attributo di potere creativo, accettato fino ad allora come prerogativa della Deità, fu concesso al genio dell’uomo. Fu questa coraggiosa ricompensa dei critici inglesi e degli uomini di lettere che i filosofi accettarono solo molto più tardi e con molte riserve. Ancora oggi molti non si sono ancora resi conto di questo, sebbene la parola ‘creativo’ sia nel frattempo entrata nel linguaggio di ogni giorno e sia diventata quasi un luogo comune. Ciononostante, troviamo la stessa idea.. all’origine del ‘liberismo’ di Adam Smith. Il ‘liberismo’ è la scienza che scoprì la produttività della mente umana, la fertilità dell’iniziativa che, come l’arte, non riconosce altre regole se non le sue proprie. Considerando il lavoro la base di tutti i meriti, porta alle stelle la creatività” ( cfr. il lucido e profondo Carlo Antoni, componente della ‘Mont Pelerin Society, in “Biblioteca della Libertà, A. III, n. 2, maggio giugno 1966, pp. 13-28 ).
Per tornare al Manzoni, da codeste necessarie implicazioni filosofiche ed ermeneutiche al di lui mai intermesso anelito per la libertà, esso si approfondisce e conferma dallo splendido coro “Dagli atri muscosi dai fori cadenti’ dell’ Atto terzo della tragedia “Adelchi” ( 1821-1822), ove la dialettica delle passioni riluce nei volti del “volgo disperso che nome non ha”, in sospeso tra il vecchio dominio dei Longobardi e il nuovo dei Franchi, non senza evocare “de’ padri la fiera virtù: /ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incerto / si mesce e discorda lo spregio sofferto // col misero orgoglio d’un tempo che fu”; fino a “Un argomento ad personam”, in risposta al Guizot, su “La Lombardia”del 4 febbraio 1861, al saggio alla Municipalità di Torino, “Dell’indipendenza dell’ Italia” (1872-1873), esprimente il “sentimento di riconoscenza” verso il Piemonte per il ruolo guida assolto nel processo di unificazione nazionale; ed – infine – all’estrema lettera al Direttore del “Corriere” di Milano, “L’unità dell’Italia e la quadratura del circolo”, non spedita da “Un suo fedele lettore”, del 1873, e poi ritrovata tra le carte dello stesso Manzoni ( “Ma a quei Francesi, che s’alzano a maledire e beffare questa per tanto tempo miserabile Italia, si può dire: ‘Flete super vos’. E l’esperienza dei tanti casi antecedenti, fa temere purtroppo che si possa aggiungere: et super filios vestros”).
Ancor di recente, Maria Gabriella Riccobono vede una impronta volterriana nella stessa struttura dei “Promessi Sposi”: “L’autore dona risalto, con ironia volterriana, alle barriere sociali, e adombra le virtù della libertà economica e il primo delinearsi della mobilità sociale”, anche se all’interno di una laboriosa e originale sintesi tra illuminismo-razionalismo e cattolicesimo-romanticismo ( cfr. “Dizionario del Liberalismo italiano”, Tomo II, Rubbettino 2015, s.v., pp. 712-716 ).
L’excursus propone inevitabilmente un raffronto, o inoltramento, nella contemporaneità ( liberismo economico, limiti del giustizialismo, prosecuzione giusnaturalistica nella eredità kantiana ).
Per quanto riguarda il primo rispetto, la qualificazione del liberismo economico ( il mercato ), nel rapporto di unità-distinzione con il liberalismo etico ( la determinazione dei popoli, con “atto volitivo” ), è illustrata dal Manzoni con argomenti del più alto interesse, e non sopita attualità.
Il pensatore, sulla “Concordia” del 15 settembre 1848, risponde a una “strana notizia” pubblicata “da Praga” il 9 settembre sullo stesso giornale: “I commercianti di qui presentarono al Ministero un indirizzo, in cui esponendo l’importanza commerciale che hanno la Lombardia e il Veneto per l’Impero, gli domandano che non voglia prestar orecchio a qualunque proposta avesse per base o per condizione la cessione di qualsiasi parte di quelle provincie”. Prima argutamente, poi con più piana deduzione logica, il Manzoni replica a tale “notizia”, anteponendo alla rivendicazione del libero mercato, le ragioni della fede nella libertà, e della disponibilità e volontà dei popoli ad accogliere lo scambio commerciale, purchessia. “So che ci sono degli uomini astuti, uomini di mondo, i quali si mettono a rider di compassione quando in politica si fa menzione di giustizia; par loro che si esca dal pratico, dal positivo, dal riuscibile. Ma gli astuti non le indovinano tutte; e in verità la sapienza e anche l’astuzia, sarebbero cose di troppo facile acquisto se consistessero nel supporre che il torto ha sempre la forza di prevalere”. Questo per il primo argomento, “rettorico” ( ma prodromo esso stesso – si badi – del famoso teorema delle conseguenze non intenzionali di azioni umane intenzionali, dedotto un secolo dopo giusto da Friedrich von Hayek: “gli astuti non le indovinano tutte” ).
Argomento cui segue il secondo, “di merito della questione”.
“Che poi la petizione in discorso sia opposta all’interesse e alla intenzione di quei medesimi che la presentarono, non è cosa di una evidenza così immediata, ma comparisce anch’essa evidentissima appena ci si rifletta sopra un pochino. Cosa vogliono infatti i commercianti di Praga ? Vendere i prodotti del loro paese ai Lombardi e ai Veneti. Giustissimo e sensatissimo desiderio. Ma come mai si vanno immaginando che il tener per forza unite all’impero quelle provincie possa servire a un tale intento ? Sento che mi rispondono: Non vedi, ignorante, che, così essendo, i nostri prodotti entreranno nella Lombardia e nel Veneto senza pagar dazio, e che per conseguenza ci saranno a miglior mercato ? E non sai che il buon mercato è, ‘coeteris paribus’, quello che fa vincere la concorrenza degli altri prodotti d’ugual genere ? – Lo vedo benissimo, e so benissimo che l’esenzione dal dazio è una facilitazione allo smercio. Ma non sono le facilitazioni quelle che fanno le cose; le aiutano bensì ma non le fanno: chi le fa sono quelle che si chiamano perciò cause efficienti. Ora, tra le cause efficienti del vendere, una essenzialissima è la volontà di chi deve comprare. E come mai, torno a dire, possono immaginarsi gli autori della petizione, che i Lombardi e i Veneti vorrebbero comprare le merci dell’ impero, quando ci fossero attaccati per forza ? Non sanno quale sia lo stato degli animi in queste due parti d’Italia ? Non sanno che di tutto ciò che potesse essere utile o gradito all’impero non farebbero se non quel tanto a cui fossero costretti per marcia forza, e che fin dove rimanessero pure liberi, il loro proposito, il loro studio, la loro consolazione. Il loro punto d’onore sarebbe di fare il contrario ?”
Dunque Manzoni sa benissimo le prerogative e il significato del “liberismo economico”, titolando non solo il saggio “Indipendenza politica e liberismo economico”, ma esplicitandone gli aspetti di libero scambio, abolizione dei dazi, maggior convenienza di mercato nello scambio dei beni ( che, in quel frangente storico, interessavano i commercianti di Praga; ma che resta un criterio e metodo economico in generale ). Ma va oltre, indicando la vera “causa efficiente” del “mercato” in altra condizione, in altra volontà, in altra aspirazione: la indipendenza e la libertà “tout court”, come disponibilità all’acquisto di beni, anche a condizioni vantaggiose, ma provenienti da un Impero tirannico. Ecco il punto. Non risulta, l’esempio principe manzoniano, neppur citato nella celebre, e anche talora fraintesa, controversia su “Liberismo e liberalismo”, tra Croce ed Einaudi, di circa un secolo dopo ( cfr. le edizioni Ricciardi, Milano-Napoli 1988, con premessa di Giovanni Malagodi; e RCS, “Corriere della Sera”, Milano 2011, con premessa di Sergio Romano ): dove bensì si allude all’esempio delle situazioni di “guerra”, ove si sospende il mercato ( dice Croce ); ma in “condizioni eccezionali” ( replica Einaudi: argomento dialettico che potrebbe essere assimilato, in senso lato, agli eventi, “eccezionali”, delle guerre d’indipendenza italiane ). Ma, di là dalla entità della citazione ( per me di assoluto rilievo, e storico e metodologico ), ai fini della dimostrazione del primato della “religione della libertà”, ci sarebbe poi sempre da chiedersi, come approfondimento interno, di natura ermeneutica: – Che cosa è poi “eccezionale”, e che cosa non lo è ? E’ “eccezionale” , anche “Buio a mezzogiorno”, di Koestler ? E la “Shoah”, con i tanti suoi riflessi etico-religiosi, dal recupero del senso del “celeste” e della “poesia di Dante” ( Ernesta Battisti Bittanti, Attilio Momigliano ) ? E “Proust nel gulag”, di Ciapski e Gustaw Herling,? E la testimonianza di libertà in Aung San Su Kyi, premio Nobel per la pace ? E i “nostri aguzzini hanno riempito il cielo di santi”, detto da Aristide nel carcere rumeno di Pitesti, “genocidio delle anime” ? E via via, sono “eccezionali” i casi Daniel e Sinjavskj, Alexander Solgenitsyn, Andrej Sacharov, Vladimir Bukovsky ? E via rassegnando ? – Sono ‘eccezionali’, certo; ma ‘quotidiani’ al tempo stesso, sol che pensiamo, allargando lo sguardo, a tutti gli atti di eroismo silenzioso espressi nella stagione interminabile della “conquista delle casamatte della società civile”, di neo-gramsciana esecuzione: là dove, cioè, l’ “eroismo” delle situazioni “eccezionali” si diluisce ed estende nella realtà quotidiana, si conferma nella “prosa” di ogni giorno, ancorché – a volte – sottaciuta; dal momento che la libertà richiede una “conquista di giorno in giorno” ( Goethe ) e la “eterna vigilanza” ( Croce; Popper ).
Ma, per tornar al testo che abbiam fatto “nostro”, Manzoni va ancora oltre, esponendo documentata nozione, e fruizione, dei classici del “Liberismo” ( coniazione che risulta sfuggita ai repertori antologici e critici e ai dibattiti etico-politici contemporanei, curati da filosofi o “pontefici minimi”, prosecutori della “filosofia minima”; come a proposito del Bastiat o del Mill, citati dal “gran lombardo” ).
Ecco l’alternativa manzoniana. “Se invece ( Dio lo voglia ! E par che lo voglia ) ogni parte d’Italia è affatto indipendente e staccata dall’Austria, ecco ciò che avverrà; e anche questa è storia piuttosto che predizione. O i legislatori italiani avranno il buon senso di non proteggere l’industria nazionale con proibizioni e con dazi spropositati ( che vuol dire assassinare il commercio nazionale, e danneggiare non poco l’industria nazionale medesima ): e le merci dell’Impero entreranno col favore delle leggi, a bandiere spiegate, alla luce del sole. Se poi cinquantott’anni dopo la morte di Smith, e non so quanti dopo la morte di Say, e viventi, parlanti, e scriventi Cobden e Bastiat, se nel paese dove più d’un economista prevenne Smith in parti importantissime, e taluno avrebbe potuto essere più che il suo precursore quando avesse avuto quella volontà d’insistere sull’argomento, che manca troppo spesso al genio italiano; se, dico, quelli che saranno i nostri legislatori staranno fissi in quello sventurato ‘proteggere’; allora le merci dell’impero entreranno malgrado le leggi, col favore del contrabbando, a lume di luna. E quando i commercianti di Praga vogliano convincersi che anche questa è storia più che predizione, s’informino di ciò che accadeva sulla riva detta sarda del Ticino e del Lago Maggiore, prima che gl’italiani dominati dall’Austria pensassero di fare al commercio dell’Austria quella guerra negativa, ma potente come giusta. S’informino e sapranno che su tutta quella riva, una delle cure più assidue e più infruttuose della finanza detta sarda, era di escludere i prodotti degli stati austriaci, che venivano dalla riva lombarda. E guardando le cose più in generale, c’è egli bisogno di dire che il commercio ci guadagna sempre a aver che fare con popoli liberi ? Di rammentare, fra tanti altri esempi, che il commercio e l’industria inglese ricevettero un aumento straordinario dall’essere le colonie inglesi dell’America settentrionale diventate gli Stati Uniti d’America?”
No al protezionismo; sì al libero scambio, dunque; ma pregiandolo sempre tra “popoli liberi”. E rammentando i liberisti economisti italiani, che precedettero addirittura Adam Smith ( in esempio, il napoletano Gennaro Serra, cui allude il Manzoni) o i varii Bastiat e Molinari ( or non è molto riediti opportunamente in “Contro lo statalismo”, per la “LiberiLibri” di Macerata ).
Grazie Manzoni, nostro genio non del tutto esplorato, che, con la amplissima “cognizione delle cose antiche” ( avrebbe detto Machiavelli ) e il “colpo d’occhio” sul presente ( dirà poi Croce ), quasi antivedevi l’ “avvenire”( Franchini ): anche a proposito dei “limiti del giustizialismo”.
E’, infatti, nella “Storia della colonna infame”, che tanto piacque a Leonardo Sciascia, parte integrante dei “Promessi Sposi”, che ricostruisce le vicende della “colonna” eretta in Milano a perenne ricordo della “caccia agli untori”, che è dato leggere un’altra analisi psicologica e storica di non perenta attualità.
Si è nel 1630: e il Manzoni organicamente riprende l’abbozzo ermeneutico contenuto al capitolo XIII delle “Osservazioni sulla tortura” di Pietro Verri. “Pietro Verri si propose, come indica il titolo medesimo del suo opuscolo, di ricavar da quel fatto un argomento contro la tortura, facendo vedere come questa aveva potuto estorcere la confessione d’un delitto, fisicamente e moralmente impossibile. E l’argomento era stringente, come nobile e umano l’assunto”. Poi investiga il “guazzabuglio del cuore umano”, con riflessi di psicologia di massa, che sembrano tornare – per vie diverse – nel mondo attuale della comunicazione mass-mediatica. “E non temiamo d’aggiungere che potrà anche esser cosa, in mezzo ai più dolorosi sentimenti, consolante. Se, in un complesso di fatti atroci dell’uomo contro l’uomo, crediam di vedere un effetto de’ tempi e delle circostanze, proviamo, insieme con l’orrore e con la compassion medesima, uno s c o r a g g i a m e n t o, una s p e c i e d i d i s p e r a z i o n e. Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscuotersi, di cui non può nemmeno accorgersi. Ci pare irragionevole l’indegnazione che nasce in noi spontanea contro gli autori di que’ fatti, e che pur nello stesso tempo ci par nobile e santa: rimane l’orrore, e scompare la colpa; e, cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla. Ma quando, nel guardar più attentamente a que’ fatti, ci si scopre un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole a m m e s s e a n c h e d a l o r o, dell’azioni opposte ai lumi che non solo c’erano al loro tempo, ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostrarono d’avere, è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per n o n v o l e r l o s a p e r e, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì esser forzatamente vittime, ma non autori” ( Dalla “Introduzione”, ed. Barion, Milano 1942, cit., pp. 199-200 ).
Nel secolo scorso, quando Leonardo Sciascia e Geno Pampaloni riprendevano questo passo, commentai le formule “uno scoraggiamento”, “una specie di disperazione”, all’interno della tematica parentiana della “dialettica delle passioni”, della “superficie morbida” e del “rovescio aspro” della riflessione manzoniana, nel mio primo saggio di soggetto manzoniano, “Croce e Manzoni”, sul “Mondo” fondato da Mario Pannunzio e la “Rivista di studi crociani” ( XI/4, 1974, pp. 489-90; poi in “Questioni dello storicismo”.II. “Il tempo e le forme”, Galatina 1981, pp. 251-254 ). Assai, e ancora, più in alto, il Manzoni stesso aveva scritto: “Ma un tal dispiacere porta con sé il suo vantaggio, accrescendo l’avversione e la diffidenza per quell’usanza antica, e non mai abbastanza screditata, di ripetere senza esaminare, e, se ci si lascia passar quest’espressione, di m e s c e r e a l p u b b l i c o i l s u o v i n o m e d e s i m o, e alle volte quello che gli h a g i à d a t o a l l a t e s t a” ( op. cit., p. 202 ). Si potrebbe dir meglio ancor oggi, dopo le tribunizie e insolenti assemblee susseguitesi al fenomeno di Tangentopoli, alla profluvie di dibattiti falsati in partenza dei cosiddetti “talk show” a epidemica ripetizione, dove vincerebbe chi più urla e combatte in una sorta di pugilato intellettuale, e il pubblico scatta all’applauso, oggettivamente sollecitato dal conduttore che signoreggia “per persuadere i persuasi” ( non “maestro di umiltà orgogliosa” ma “carrierista di altezzosità servile”, direbbe Rosario Assunto ), e “mescere al pubblico il suo vino medesimo, e alle volte quello che gli ha già dato alla testa” ?
Il terzo rispetto di attualizzazione del rapporto di Manzoni a Voltaire richiede un passaggio che ho dovuto trascurare sinora: la “depurazione” – per dir così – dell’universalismo cosmopolitico nell’apriori kantiano, e la riscoperta – grazie al passaggio kantiano – della “restaurazione del diritto di natura”, nuovo ancoraggio nell’età della “barbarie ricorsa” ( fondamentalismo, fanatismo, “Ge-stellung” tecnologica variamente combinantesi ). Propongo gli incroci ermeneutici. Manzoni non conosce Kant direttamente; ma se ne giova tramite una richiesta bibliografica all’amico Claude Fauriel ( “Milan, 23 may 1817”): “Les deux ouvrages de Villers sur la philosophie de Kant”. Cesare Arieti in note non spiega la allusione contenuta nelle “Lettere”, n. 118, vol. I ( pp. 172-174 e 786-788 ). Ma la notizia manzoniana era tratta dal sensista Francesco Soave ( “La filosofia di Kant esposta ed esaminata”, Edizione prima veneta, Venezia MDCCCIV, p. 9 e nota ), e si riferiva all’opera di Carlo Francesco Domenico de Villers, “Philosophie de Kant ou principes fondamentaux de la philosophie transcendentale” ( Metz ou Paris, 1801, in 2 voll.): dunque ad una lettura di seconda, o terza, mano in cui, rispetto a Kant, si pregiavano le idee di Locke, Condillac, Destutt de Tracy, in conformità della formazione parigina giovanile del Manzoni. Da queste stesse fonti, attinse molto – tra l’altro – Pasquale Galluppi, nel suo “Saggio filosofico sulla critica della conoscenza” del 1819-1832 ( cfr. Eugenio Di Carlo, “A quali fonti abbia attinto il Galluppi la conoscenza della filosofia di Kant”, nella “Rivista di filosofia neo-scolastica”, a. 23, N. 4/5, luglio-ottobre 1931, pp. 403-409 ). Invece sia Manzoni che Kant ben conoscono Voltaire.
Manzoni, da parte sua, oltre che nei luoghi citati, pregia – nella stessa lettera al Fauriel del maggio 1817 – la grande edizione settecentesca figurata di tutte le Opere di Voltaire ( “Lettere”, I, 174: “edition de Kehl”, in 70 voll., 1784-1789 ).
Kant, che non di rado confuta la pretesa di ogni utopismo astratto, informato al disegno della società ideale perfetta, influisce sull’allievo Christian Garve, che, nel saggio “Sul rapporto della morale con la politica”, si rifà al noto romanzo di Voltaire, “Zadig.Storia orientale”, del 1747, segnatamente al capitolo XX. “Dio comanda a un padre di sacrificare suo figlio; comanda a un popolo di disperdere un altro popolo: può questo fatto, da solo, fornire una prova che gli scritti in cui si trova quel comando non derivano da lui ? Colui che ha dato la vita a tutti gli uomini, e tutti ha sottoposto alla legge della morte, può ben disporre della vita di un singolo uomo o dell’esistenza di una singola nazione. Se egli, attraverso le leggi universali della natura, ha dato nel suo piano una parte altrettanto essenziale alla distruzione che alla produzione, può ben anche, in un caso particolare, usar degli uomini come strumenti di distruzione, e indicar loro, di questa, il tempo e il luogo. Se quegli uomini avessero fatto di propria iniziativa ciò che egli comandava, sarebbero stati criminali, perché non avrebbero avuto davanti agli occhi altro che distruzione e rovina: ma l’Essere supremo vedeva la vita e la felicità come una conseguenza lontana di ciò, e quelle aveva di mira. Zadig si gettò pieno di rispetto ai piedi dell’angelo Iezrad in veste di inviato della provvidenza, mentre in veste di eremita lo aveva, per le sue azioni, considerato un ladro e un assassino” ( cfr. “Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto”. Con un saggio di Christian Garve, Tradotti da Gioele Solari e Giovanni Vidari. Edizione postuma a cura di Norberto Bobbio, Luigi Firpo e Vittorio Mathieu, UTET, Torino 1965, p.607-608 in: 575-673 di Christian Garve ). Kant cita anche direttamente Voltaire nello scritto “Delle diverse razze di uomini”, del 1777, dove commenta criticamente l’universalismo cosmopolitico: “Dire con Voltaire: ‘Dio, che creò in Lapponia la renna per consumare il muschio di queste fredde regioni, creò ivi anche il Lappone per mangiare la renna’, è una trovata non spregevole per un poeta, ma di scarsa utilità per il filosofo, che non può staccarsi dalla catena delle cause naturali se non là dove la vede evidentemente legata a un decreto divino” ( cfr. “Scritti politici”, cit., p. 117 in: 105-121 ). L’orologiaio di Koenigsberg riflette a livello ermeneutico su Voltaire, ma non può accettarne – filosoficamente – il mero “universalismo” astratto, salvo poi riservarsi di tradurlo nei nuovi termini della 2rivoluzione copernicana” a proposito dell’ apriori gnoseologico ( sintesi a priori nella “Critica della ragion pura” ), etico ( imperativo categorico, in “Critica della ragion pratica” ), estetico ( sentimento di piacere e dispiacere nella “Critica del Giudizio”. Voltaire aveva scritto, dopo il terribile terremoto di Lisbona che sconvolgeva la ottimistica visione leibniziana del mondo, due “poemi a specchio”, il “Poema sulla legge naturale” e il “Poema sul disastro di Lisbona” ( 1751-52 e 1755 ), in versi assai belli elevando un canto alla universale dignità dell’uomo: “Questa legge suprema, in Cina, in Giappone, /ispirò Zoroastro, illuminò Solone. / Da un capo all’altro del mondo essa parla, essa grida: / Adora un Dio, sii giusto, e ama la tua patria”. E soprattutto: “L’oro che nasce in Perù , l’oro che nasce in Cina, / hanno la medesima natura e la stessa origine: / l’artigiano lo lavora e non può crearlo” ( cfr. “Il sommo male”. Prefazione di Xavier Tilliette, a cura di Enzo Cocco, con testo originale a fronte, Il Ramo, Rapallo 2004, pp. 56-61: ripensato nel mio libro “I conti con il male. Ontologia e gnoseologia del male”, G. Laterza, Bari 2015 ).
Ora, codesto appello universalistico si riaccende proprio otto anni dopo nello scritto pre-critico kantiano del 1763, delle “Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime”, nelle pagine assai belle dedicate alla “dignità e bellezza della persona umana”, che furon introdotte da Rosario Assunto e Rolf Hohenemser, nella laterziana edizione degli “Scritti precritici” del 1953.
In questo senso, e in parte, si può dire che anche una urgenza di Voltaire sopravviva nella chiarezza liquida di Kant, riportandoci per larghe vie e nuovi sentieri a un Croce “lontano da Hegel” ( Franchini ), e – per ciò stesso – al “Ciò che è vivo e ciò che è morto nella Filosofia di Hegel” sino alla “permanenza dei principi costitutivi” in “Filosofia e storiografia” del Croce; alla “Restaurazione del diritto di natura” di Carlo Antoni; alla imprescindibilità delle “categorie” o dei “principii” nella lezione di Alfredo Parente; alla pedagogia dei “valori perenni” di Sergio Hessen, e altro ancora. Il che, in un’età contrassegnata spesso dalla varia e dispersiva fenomenologia del nichilismo e del relativismo, non sembra costituire un acquisto – e una conferma – di poco conto.
Giuseppe Brescia