MARCELLO DELL’UTRI E’ STATO CONDANNATO SENZA PROVE: LO AMMETTONO SIA I PUBBLICI MINISTERI CHE I GIUDICI

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Inoltre non gli sono stati contestati reati specifici. E’ mai possibile tutto questo?
Lettera aperta a Carlo Nordio

Gentile ministro Nordio, sottopongo alla Sua cortese attenzione l’incredibile caso di malagiustizia che ha investito la persona di Marcello Dell’Utri, reduce da quattro anni di detenzione nelle patrie galere che ne hanno vulnerato la felicità e la salute personale in esecuzione di una condanna passata in giudicato a 7 anni non per mafia, è bene sottolinearlo (sic!), ma per concorso esterno in associazione mafiosa per non aver commesso il fatto (sic!): non è sufficiente che ad essere investita del caso fuori della giurisdizione italiana sia stata la Cedu – Corte Europea dei diritti dell’uomo, la cui pronunzia tarderà a venire con probabile replay del “dossier Contrada” nei prossimi anni –, ma occorre che Lei, come Guardasigilli critico nei confronti degli eccessi della Magistratura “illimitatamente irresponsabile” ai sensi dell’art. 112 della Costituzione (che inventa l’artifizio dell’obbligatorietà dell’azione penale), intervenga in maniera censoria rispetto al fumus persecutionis contro l’ex on. Marcello Dell’Utri: in luogo del fatto che non è stata prodotta in dibattimento una sola prova contro di lui per l’“affectio societatis”, auspicando la revisione in casa nostra della sentenza di condanna definitiva della giudice Margherita Cassano che viola i diritti alla difesa di MDU; secondo la Giustizia Italiana il soggetto in questione non è autore di nessun reato, ma soltanto di un “quasi reato”: estraneo ad ogni profilo di “responsabilità penale personale” ai sensi dell’art. 27 Cost. è oggettivamente responsabile.
Orbene, si tratta di una figura di reato plasticamente “extra-ordinem” che evoca tristi ricordi della Santa Inquisizione.
Osserva Luigi Manconi nell’analisi “Nordio e i compagni di strada” pubblicata su “la Repubblica”, che: “… Condivisibile anche l’idea, rilanciata da Nordio, della separazione delle carriere dei magistrati, che – magari con la previsione di due distinti organi di governo autonomo – valorizzi la fisiologica dialettica tra giudicanti e requirenti, purchè non comporti (come in Portogallo) soggezione all’esecutivo del pubblico ministero. In altri termini, quella separazione andrebbe attuata continuando ad assicurare la felice anomalia che, nel nostro sistema, connota un pubblico ministero, la cui indipendenza è garantita normativamente e il cui criterio d’imparzialità è osservato nella raccolta di tutte le prove pertinenti, sia a carico che a discarico dell’imputato…”; insomma, Manconi con le pur legittime “democristianerie” del suo repertorio, propone nella migliore tradizione del gattopardismo un colpo al cerchio e uno alla botte – quando in realtà la tanto agognata da quarant’anni separazione delle carriere pm/giudici sempre auspicata, ma mai realizzata è eziologicamente collegata come tale all’abrogazione tout court dell’obbligatorietà dell’azione penale che è una falsa partenza, una falsa certezza e cattiva teoria.
Che c’entra tutto questo – obietteranno i lettori – con l’anomalia del processo Dell’Utri denunciata da chi scrive?
C’entra, senza violare il primo comandamento di Indro Montanelli: “Un concetto per articolo”…
Continuare ad assicurare la felice anomalia che, nel nostro sistema, connota un pubblico ministero, la cui indipendenza è garantita normativamente in sede teorica con l’art. 112. significa permettere che il magistrato – che dispone del potere terribile di revocare la libertà personale di un individuo – rimanga “illimitatamente irresponsabile” e possa distruggere la vita del malcapitato di turno senza che gli accada niente; anche perché il pm di turno, potrà sempre dire “non potevamo non procedere in quanto l’azione penale è obbligatoria”.
Il docente di ordinamento giuridico Giuseppe Di Federico, in una bellissima lettera aperta a Lucia Annunziata rimasta senza risposta nel novembre 2009 “Il CSM sordo – Le minacce di Spataro”,
osservava quanto segue: “… Contrariamente a quello che riteneva il nostro Costituente non è materialmente possibile perseguire tutti i reati e quindi le nostre procure ed i nostri singoli pubblici ministeri (PM) si trovano a dover scegliere loro stessi come e con che approfondimento condurre le indagini nonché i criteri da seguire nell’esercizio dell’azione penale.
Le mie ricerchè evidenziano questi fenomeni da oltre 40 anni.
Seppur con notevole ritardo, ormai lo ammettono in molti. Implicitamente ma molto chiaramente, persino le circolari e le sentenze disciplinari del CSM. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che il principio di obbligatorietà dell’azione penale, lungi dal garantire l’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge, impedisce invece di introdurre quella regolamentazione e responsabilizzazione delle attività del PM con cui in tutti gli altri paesi democratici si cerca, tra l’altro ma non solo, di dare attuazione concreta al valore dell’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge. Sì, perché sul piano operativo l’accoppiata tra obbligatorietà dell’azione penale e piena indipendenza del PM, tanto caro a Spataro, non crea solo sofferenza per il valore dell’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge.
Crea grave sofferenza anche ad altri valori di grande rilievo in democrazia come quello della protezione dei diritti civili nell’ambito processuale, e della attuazione di una coerente, responsabile formulazione delle politiche criminali del Paese nelle forme che sono proprie alle democrazie.
Vengo molto sommariamente al primo aspetto.
Sul piano operativo l’accoppiata obbligatorietà dell’azione penale ed indipendenza del PM consente di fatto ai nostri PM di iniziare indagini su ciascuno di noi per reati che più o meno giustificatamente ritiene siano stati commessi, di utilizzare quindi, senza limiti di spesa, tutti i mezzi di indagine che ritiene necessari per provare le sue ipotesi accusatorie. Se dopo anni di indagine e di un eventuale processo si accerta che non vi erano ragioni che giustificassero l’azione del PM, questi non sarà responsabile di alcunchè né sotto il profilo patrimoniale né sul piano della valutazione della sua professionalità: come di regola avviene, può legittimamente affermare, con immancabile successo, che non poteva non fare quanto aveva fatto perché vi era stato costretto dal dovere di dare piena attuazione al principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Un principio che quindi trasforma qualsiasi iniziativa del PM, per infondata e discrezionale che sia, in un “atto giuridicamente dovuto”.
Che la sua iniziativa, abbia causato danni irreparabili sotto il profilo economico sociale, politico familiare, della salute al cittadino innocente non comporta per lui responsabilità alcuna, così come è assolutamente irresponsabile anche per lo spreco di pubblico danaro da lui causato. Sono entrambe cose di cui in altri paesi democratici ci si preoccupa…”.

Invece è più realistico quanto auspicato da Marcello Dell’Utri in un’intervista per “la Repubblica” nel 2000: “Anziché occuparsi di rapine e spaccio di droga, ci sono magistrati che preferiscono perseguitare Berlusconi e altre persone che danno loro visibilità. L’obbligatorietà dell’azione penale non esiste. E’ nelle cose che sia il governo a definire gli indirizzi della lotta alla criminalità. E’ ragionevole che tocchi al governo indicare le priorità da seguire nella tutela del cittadino, rivolgere le opportune raccomandazioni a chi ha il compito della repressione”.

Il pm non solo non dice il iure, ma è un funzionario alle dipendenze dell’esecutivo.
Se si fosse seguito il sistema auspicato da MDU, non sarebbero caduti in prescrizione migliaia di procedimenti ogni anno per la mancata gerarchizzazione verticistica dell’azione penale, poiché a stravaganti magistrati – come Vincenzo Calia e Michele Ruggiero tanto per fare esempi, interessava e interessa occuparsi della morte di Enrico Mattei o della “trattativa Stato/Mafia”, piuttosto che delle agenzie di rating, ecc. e addio alla “volgarità della routine” nei propri uffici giudiziari.
Eppure, è proprio quella stessa volgarità della routine che fonda il corretto esercizio dell’azione penale nell’interesse dei cittadini, impedendo il verificarsi di situazioni di arbitrio.
Situazioni di arbitrio tecnicamente totalitario anche perché manca de facto ogni controllo sullo strapotere dei singoli sostituti per mano del cosi detto “procuratore capo”, la cui funzione oramai è
puramente estetica e svuotata d’ogni contenuto.

Ministro Nordio, La prego di leggere con attenzione le seguenti riflessioni.

Marcello Dell’Utri è stato tradotto nelle patrie galere nel 2014 dopo 19 anni di processo sulla base di una “presunzione di colpevolezza” tout court dei pubblici ministeri e dei magistrati giudicanti sulle tesi dei primi appiattiti, che hanno confermato il “teorema Ingroia” in sede di sentenza passata in giudicato: cioè il sospetto che avesse commesso una condotta di riciclaggio che però non è mai stata provata; ora, se un individuo qualsivoglia esso sia viene mandato in carcere sulla base di un sospetto ma si dice: oggettivamente ha commesso il reato – dunque in violazione dichiarata dell’art. 27 della Costituzione – si viola l’abc dello stato di diritto, si viola l’art. 111 della Costituzione che fonda il cosiddetto “giusto processo”, si prende una decisione illegale.
Nella parte conclusiva della requisitoria per la condanna in primo grado a 9 anni di carcere per concorso esterno macchiata dall’ombra di una possibile manipolazione criminosa dell’ex art. 192 c.p.p. con istigazione al suicidio di un collaboratore di giustizia, e che ha portato alla condanna in primo grado della IV sezione del Tribunale di Palermo presieduta da quello stesso magistrato che indagava su Dell’Utri (sic!), Antonio Ingroia e i suoi colleghi scrissero:

“… Si rappresenta che Filippo Alberto Rapisarda a dibattimento, oltre a confermare le dichiarazioni rese in istruttoria (che però risalivano al 1987 rese all’allora giudice istruttore Giorgio Della Lucia, nda) ha reso ulteriori dichiarazioni (nel 1998, nda) secondo le quali sarebbe stato testimone diretto della acquisizione di denaro contante da parte di Dell’Utri inserito in alcuni sacchi.
Si riportano le dichiarazioni del Rapisarda nelle quali si era fatto riferimento all’investimento dei 20 miliardi di lire. Cominciamo da quello di 10 miliardi.”
RAPISARDA: Nel dicembre 1978, non ricordo la data esatta, era anche il minuto credo più brutto della mia vita perché di lì a poco sono scappato, quindi avevo sentivo di avere un mandato di cattura addosso, incontrai in piazza Castello a Milano da dove partono i pullman per le varie località del nord Italia Stefano Bontate e Mimmo Teresi i quali mi hanno detto: “Prendi un caffè e il Teresi mi disse: “Sai, stiamo aspettando Marcello Dell’Utri perché ci vuole far dare 10 miliardi per questa nuova attività che vogliono intraprendere, che sono le televisioni private. Tu cosa ne dici?
Parlava di lui e di Berlusconi. Marcello e Silvio devono fare questa nuova attività. Questo me lo accennò Mimmo Teresi e poi lo continuò Stefano che faceva il…”.
PUBBLICO MINISTERO: “Quindi erano stati chiesti questi 10 miliardi che servivano a cosa?”
RAPISARDA: “A creare le televisioni che non c’erano.”
PUBBLICO MINISTERO: “Va bene. E allora le dissero che avevano un appuntamento con Marcello Dell’Utri”.
RAPISARDA: “Con Marcello Dell’Utri e con Silvio all’Edilnord perché erano li vicino. Ci siamo salutati e me ne sono andato. Dieci-dodici giorni dopo, io la sera rientrando andai nell’ufficio da lui (Dell’Utri) e trovai lui con questi due e con i soldi sul tavolo. Dell’Utri, Stefano Bontate e Mimmo Teresi avevano dei soldi e lui era al telefono che parlava come lui ha detto con Silvio.”
PUBBLICO MINISTERO: “Bontate e Teresi stavano mettendo dei soldi in sacche. Che tipo di sacca era?”.
RAPISARDA: “Una sacca di tela era, credo nera o blu e poi Dell’Utri mi ha detto che era seccato che doveva pigliare subito questi soldi e portarli da Silvio ad Arcore.”
PM: “… E queste mazzette erano tutte sul tavolo. Com’erano?”
RAPISARDA: “No, c’erano delle borse con questi soldi sul tavolo. Io poi ho fatto finta di non guardare e andarmene.”
PUBBLICO MINISTERO: “Ma lei ha elementi per collegare questi soldi che ha visto mettere nella sacca con i 10 miliardi di cui le aveva parlato Bontate e Teresi?”
RAPISARDA: “Ma la somma doveva essere su per giù quella. Il volume dei… poteva, doveva
essere quella. Dopo cinque minuti me ne andai, e basta.”
PUBBLICO MINISTERO: “Era usuale che sia lei che il dottore Dell’Utri vi fermaste in ufficio sino a tardi?”
RAPISARDA: Abitavamo tutti e due nello stesso palazzo, dove avevamo l’ufficio.
Tre giorni dopo sono partito, e sapevo già di avere il mandato di cattura.”
PUBBLICO MINISTERO: “Andiamo all’episodio dei 20 miliardi. Lei ha detto che aveva un appuntamento con il dottore Dell’Utri al bar dell’Hotel George V a Parigi dove Rapisarda era latitante.
RAPISARDA: “Del George V.”
PM: “Arrivano questi signori, e si salutano con il dottore Dell’Utri. Mentre siete al bar, si accenna già al motivo dell’appuntamento fra il dottore Dell’Utri e queste persone?”.
RAPISARDA: “Si sì. Si è accennato là dentro a questa necessità dei soldi e poi siamo andati su nell’appartamento”.
PUBBLICO MINISTERO; Davanti a lei si fa cenno alla decisione dei soldi parlando di, quantificando la somma?”
RAPISARDA: “In venti miliardi”.
PM: “Dopodichè vi spostate all’appartamento del dottore Dell’Utri, quello di fronte all’albergo no.”
RAPISARDA: “Sì”.
PM: “E allora lei, quindi, sta questi 10 minuti un quarto d’ora. Che cosa accade?”
RAPISARDA: “Niente. Hanno parlato, si sono messi d’accordo. Lui mi aveva detto che non pigliavano neanche gli stipendi in quel periodo alla Fininvest, e poi ha detto che avevano bisogno di questi soldi per fare l’acquisto di questi film perché la televisione potesse andare avanti.”
PM: “E venne fatta in quel lasso di tempo in cui lei era presente sia la richiesta e venne data subito la risposta positiva e cioè: va bene, ti diamo i 20 miliardi oppure?…”.
RAPISARDA: “La risposta, io penso che fu positiva. Esisteva il problema come dovevamo farli arrivare, ma non è che loro avevano problemi di soldi.”
PUBBLICO MINISTERO: “E chi parlò da quella parte?”
RAPISARDA: “Stefano… Stefano Bontate”.
PUBBLICO MINISTERO: “Lei poi ha avuto modo con qualcuno dei protagonisti di quel colloquio di riparlarne? Ha avuto conferma se l’affare venne o meno concluso poi?”.
RAPISARDA: “Poi so che la Fininvest aveva risolto i suoi problemi finanziari, che era andata avanti, che avevano fatti questi acquisti in America. Per cui pensai che era andata a buon fine quella cosa lì.”
PUBBLICO MINISTERO: “Quindi questa fu una sua deduzione?”
RAPISARDA: “Il mio colloquio finisce lì. Quel giorno e basta.”
PM: “Ma lei con il dottore Dell’Utri non ne parlò più>?”
RAPISARDA: “No. Anche perché non lo vidi più.”
PM: “Mi scusi, lei il 12 dicembre 1997 ha dichiarato: “A un certo punto il Dell’Utri mi disse poi che l’affare era andato in porto…”
RAPISARDA: “Ah, sì. Ma per telefono”.
Rapisarda “pensava” ci fosse stato riciclaggio, ma non lo sapeva per sua stessa ammissione; “pensai che era andata a buon fine quella cosa lì.” (il riciclaggio, ndr); ma se Rapisarda pensava non sapeva: immaginava soltanto per ipotesi.
Attenzione, che questi sono i paralogismi secondo Immanuel Kant.

Orbene, queste dichiarazioni di Filippo Alberto Rapisarda che tra l’altro non sono mai state accompagnate da riscontri probatori in tema di “riscontri individualizzanti”, hanno esercitato un condizionamento nella parte motivazionale della sentenza passata in giudicato contro Dell’Utri per contestare a Dell’Utri il reato di tentato riciclaggio ancorchè insufficientemente dimostrato, il reato così detto del tentativo di riciclaggio; che – tra l’altro per ammissione degli stessi PM – potrebbe
neanche essere andato a buon fine (sic!).

Osservava Ingroia nella requisitoria, con affermazioni a-giuridiche che a parere dichi scrive sono gravi: “… Non c’è solo il bianco e il nero; esistono varie gradazioni di grigio, esiste anche la possibilità della prova “semipiena”.
Se avessimo acquisito la prova piena di condotte di riciclaggio, il PM non avrebbe richiesto l’archiviazione di quel procedimento. Ma – attenzione – questo non significa che non vi è alcun riscontro delle dichiarazioni di quei collaboranti. Quelle dichiarazioni risultano, anzi, riscontrate, soltanto che si tratta di riscontri generici, di riscontri parziali: manca un riscontro – diciamo così – “individualizzante”, che individui – cioè – le operazioni finanziarie mediante le quali si sarebbe realizzato un flusso di denaro contante fra le casse di Cosa Nostra e le società riferibili ai gruppi ove ha operato Dell’Utri presso le imprese di RAPISARDA e BERLUSCONI. Ed è questo il motivo per il quale il riscontro si è rivelato insufficiente per procedere penalmente per il reato di riciclaggio…
Ebbene, per quanto sopra esposto è stata raccolta prova a dibattimento, corroborata come sopra abbiamo detto dalla consulenza del dottor Giuffrida, che Dell’Utri si adoperò per favorire l’associazione mafiosa Cosa Nostra anche per consentire all’associazione mafiosa di investire soldi nelle imprese ove egli operò: ed è irrilevante – ai fini del reato per cui si procede in questa sede – che tale specifico obiettivo sia stato realizzato.”

Cioè, non conta che il riciclaggio di denaro nelle casse della Fininvest possa non essersi verificato (sic!). Noi dell’accusa sappiamo che quantomeno è stato tentato ancorchè irrealizzato de facto.
Le prove non contano: “Pretendere la prova del riciclaggio, e, dunque, della commissione del reato specifico, contraddirebbe, peraltro, la natura di anticipazione della tutela insita nella fattispecie associativa: a cosa servirebbe il reato associativo se fosse meramente ripetitivo del sanzionamento delle singole condotte di realizzazione del programma criminoso? Sarebbe come ridurre l’incriminazione per il reato associativo a mera circostanza aggravante delle norme incriminatrici speciali per i reati fine, abolendo di fatto i suoi autonomi ambiti di applicabilità.
E’ stata raccolta prova che Dell’Utri stabilì i contatti fra associazione mafiosa e realtà imprenditoriali milanesi, e si adoperò perché questi contatti si mantenessero negli anni. Lo fece per agevolare l’associazione mafiosa. Lo fece in modo costante.
Questo è sufficiente per la condanna sia come partecipe che come concorrente.”

Ps – Quando chi scrive ha letto questi passaggi della requisitoria Ingroia a Ferdinando Cionti, egli è rimasto sconcertato: se l’imputato è estraneo ai fatti contestati, è estraneo agli stessi sic et simpliciter. Solo e semplicemente. Non si può dire: ma è come se fosse colpevole!
Scrive la sentenza della Margherita Cassano, III grado di giudizio con il venir meno della “presunzione d’innocenza”, come nucleo motivazionale della condanna per il concorso esterno 74 – ’92 inflitta a Marcello Dell’Utri: “…”Questa circostanza veniva logicamente desunta dai giudici di Palermo dall’incontro, avvenuto nei primi mesi del 1980, a Parigi, tra l’imputato (Dell’Utri, ndr), i capimafia Bontate e Teresi, incontro nel corso del quale Dell’Utri chiedeva ai due mafiosi 20 miliardi di lire per l’acquisto di film per Canale 5”.
Con tanti saluti al NE BIS IN IDEM.
La pronunzia di proscioglimento dell’allora giudice istruttore Giorgio Della Lucia è ignorata, per fondare il cosiddetto “reato lungo” 1974 – ’80 – ’92 che – senza la mediazione dei fatti indimostrati dell’Hotel George V – non sarebbe stato artificiosamente tenuto in piedi, cagionando la perdita della libertà personale di Dell’Utri Marcello.
Dura lex, sed lex. No al processo inquisitorio, caro ministro Nordio.
Dell’Utri Marcello non ha commesso il fatto, e dunque è innocente (ma non si può dire). Non è quasi colpevole!

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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