Margaret Thatcher: un esempio di leader liberale

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Stefano
A nemmeno 24 ore dalla morte di Margaret Thatcher, la Lady di Ferro che fu l’unica premier britannica donna dal 1979 al 1990, c’è già chi non esprime cordoglio. Dal comunista Paolo Ferrero (“Senza di lei, il mondo sarebbe stato migliore”) a Romano Prodi (“Fu la madre della crisi”), molti dimostrano di non averla mai amata. E non la amano proprio per il suo messaggio autenticamente liberale.
Senza di lei, il mondo sarebbe stato decisamente migliore per Ferrero: l’Urss, molto probabilmente sarebbe ancora in piedi. Fu infatti Margaret Thatcher, assieme a Ronald Reagan, ad assestare il colpo di grazia all’impero sovietico già traballante di suo. La Thatcher sostenne lo schieramento degli “euromissili” nel 1983 e promosse in Europa, dopo un primo anno di scetticismo, anche la strategia reaganiana della difesa anti-missile. Entrambe le mosse garantirono, sul piano strategico, la definitiva superiorità militare della Nato sull’Unione Sovietica. Benché la seconda (la difesa anti-missile) rimase solo sulla carta, i sovietici dovettero cambiare politica, passando dalle minacce alla distensione. Pur deludendo alcuni dei dissidenti, sin dal dicembre del 1984, intavolò un dialogo con Michail Gorbachev. Investì su di lui (quando era membro di spicco del Politburo) e vinse la scommessa quando divenne l’ultimo presidente, nonché involontario liquidatore, dell’Unione Sovietica. Come il dissidente Vladimir Bukovskij poté mostrarle in seguito, fu proprio Gorbachev a finanziare, contro di lei, il lunghissimo sciopero dei minatori del 1984-1985. Né questo era l’unico “scherzo” che le stavano preparando i sovietici. Come si seppe solo a 30 anni di distanza, nel 1981 il Kgb pianificò minuziosamente un piano per ucciderla. Non lo mise mai in pratica, probabilmente solo perché le circostanze non lo consentirono. La Thatcher, in ogni caso, non volle mai ricorrere ad uno scontro diretto con l’Unione Sovietica. Tantomeno militare. Era convinta che il blocco sovietico fosse un gigante dai piedi di argilla. Contro di esso combatté una battaglia culturale ed economica, mentre lo conteneva militarmente. Favorì ogni possibile spiraglio di apertura, con il suo costante e paziente dialogo con Gorbachev, finché tutto il castello comunista non venne giù da solo senza sparare un solo colpo.
Romano Prodi la considera la “madre della crisi”. Però dimentica che la Gran Bretagna, nel 1979, era il “grande malato d’Europa”. Dopo il decennio Thatcher era una grande potenza economica. Ma quel che più conta è che la politica della Lady di Ferro fu contagiosa e determinò, assieme alla Reaganomics, il più lungo e pressoché ininterrotto periodo di crescita economica nella storia contemporanea. La ricetta della Thatcher era semplice come la gestione della drogheria di suo padre, dove imparò l’arte della contabilità: “La verità è che le famiglie e i governi hanno in comune molto più di quanto i politici e gli economisti vogliano ammettere – scrisse la premier nelle sue memorie – Anche se le conseguenze dell’infischiarsi delle regole fondamentali sono alquanto diverse a seconda che si tratti dello Stato o della famiglia, esse sono comunque devastanti: e anzi, più devastanti nel caso degli Stati, perché hanno il potere di trascinare a fondo con sé intere nazioni”. La Thatcher potrebbe benissimo replicare anche oggi, a economisti keynesiani di grido come Paul Krugman: “Mentre per una famiglia, spendere più di quanto guadagnasse significava la strada della rovina, secondo la nuova dottrina economica, per lo Stato era la via del benessere e della piena occupazione (…) Non avevo ancora letto le teorie di Milton Friedman o di Alan Walters, ma già sapevo che queste affermazioni non potevano essere vere. La parsimonia era una virtù e lo spreco un vizio; e il mondo non avrebbe avuto più senso se fosse stato possibile sospendere le leggi del comportamento umano grazie alla volontà dei politici”. Quando la Thatcher mise mano alla malata economia britannica, la risanò con quattro riforme fondamentali che restano tuttora un esempio da manuale di politica liberale. Primo: abbatté l’inflazione con una politica monetaria restrittiva. In questo modo liberò i britannici da una forma di tassazione occulta che ne comprometteva il potere d’acquisto e scoraggiava gli investimenti. Secondo: abbatté la spesa pubblica, riducendo il debito pubblico ai livelli pre-Prima Guerra Mondiale. Solo così poté permettersi di abbassare la pressione fiscale, lasciando più soldi nelle tasche dei cittadini. Terzo: rese più democratici (all’interno) e trasparenti (verso l’esterno) le grandi organizzazioni sindacali che, fino al 1979, avevano il comando di fatto dell’economia britannica e impedivano ogni riforma. La de-sindacalizzazione della società inglese procedette spontaneamente. Negli anni successivi alla sua riforma, il sindacato perse quasi i due terzi degli iscritti. I lavoratori non si sentivano più rappresentati dalle organizzazioni collettive e si trovavano ormai meglio in un nuovo sistema in cui la contrattazione sul salario era maggiormente affidata al libero mercato. Quarto: liberò le imprese, ristrutturando e privatizzando tutte le industrie statali strategiche (comprese le ferrovie, le telecomunicazioni, la compagnia aerea di bandiera, l’acciaio, l’industria automobilistica, gli aeroporti, il gas, l’acqua e l’energia elettrica) ed eliminando la maggior parte delle regole che tarpavano le ali alla libera iniziativa. Favorendo una vendita ad azionariato diffuso, contribuì a fare del popolo britannico una “società di proprietari” responsabili dei loro beni e delle loro scelte.
Se negli ultimi anni ci siamo impoveriti, invece, lo dobbiamo al fatto che l’Italia, né la Francia, né alcuno dei più statalisti membri mediterranei dell’Unione Europea, ha mai seguito l’esempio delle riforme thatcheriane. Lo dobbiamo a quel corporativismo europeo, di matrice socialista o democristiana (che Prodi ben rappresenta), che ci ha tenuti ben lontani dalla crescita di libertà e di benessere che la Thatcher ha innescato in Gran Bretagna. Senza una Thatcher, il nostro mondo è decisamente peggiore.

Stefano Magni

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