MARIO DRAGHI ANNUNCIA IL NEW DEAL DI KEYNES AL GROUP OF THIRTY: E’ LA RIVOLUZIONE

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“Ogni battaglia è vinta prima di essere cominciata”
Sun Zu, L’arte della guerra

“… Non voglio affermare adesso che ai governanti, presi nel loro insieme, manchi una Weltanschauung; anche gli uomini più semplici ne sono provvisti. Ma certamente manca a loro la Weltanschauung adatta a consentire il funzionamento di un’economia di mercato…”
“I guai supplementari dell’Italia”, capitolo 11 de Vi racconto l’economia di Piero Ottone

Personalmente nutro una passione dichiarata per Mario Draghi, un cosmopolita tra i provinciali.
L’aurea mediocritas Giuseppe Conte ha il terrore di Mario Draghi (non per niente chiamato SuperMario) poiché “l’avvocato del popolo” vede l’Establishment come il fumo negli occhi (sic!), capace di smascherarne il provincialismo moroteo: alla domanda della brillantissima conduttrice di “Otto e Mezzo” Lilli Gruber rivolta a un tiratissimo Conte presente negli studi de “la 7”: “Perché in una crisi così complessa, così difficile anche rispetto ai negoziati con l’Europa, le posso chiedere perché lei non ha chiamato Mario Draghi?”, l’interessato ha risposto con un sorriso di circostanza che più sofferto non poteva essere, e con lieve arroganza: “Mah, ci siamo visti anche recentemente ma non c’è mai stata necessità… Per chiedergli se vuole fare il presidente?”. Perfetta la risposta della Gruber, che è una professionista consumata: “No no no, per chiedergli dei consigli pratici, visto che da economista ed ex presidente della Bce penso che dei consigli pratici glieli potrebbe dare, visto che lei è un avvocato e un politico prestato che non ha esperienza…”.
Conte si è tradito, si è confessato per lo stress del nervosismo: “Vede, io non l’ho fatto certo per spocchia o supponenza ma mi fido del mio ministro dell’Economia e di chi lavora al Mef”.
In Italia c’è un dramma: non si perdona il successo; nei paesi anglosassoni caratterizzati geneticamente dal “senso dell’Establishment”, il successo degli individui carichi di pensiero divergente è tendenzialmente “perdonato” (non sempre, però: come nel caso tristissimo del matematico Alan Turing che inventò il primo computer per sconfiggere Adolf Hitler, e fece una fine peggiore di Oscar Wilde).
Orbene, nell’interessante dossier de “la Repubblica” del 15 dicembre 2020 “Crisi, la ricetta di Draghi “Basta aiuti a pioggia. Servono misure mirate” a cura di Francesco Manacorda, leggo la rivoluzione. Sì, avete capito bene: la rivoluzione di John Maynard Keynes. Che era l’erede della Mano Invisibile di Adam Smith, poiché la teoria – riversata nella pratica – del deficit spending è il prolungamento fisiologico del laissez faire. Ecco perché:
“… Mentre in Italia l’ex presidente della Banca centrale è evocato insistentemente nei mille scenari di possibile crisi politica casalinga, Draghi continua a impegnarsi su uno scenario internazionale sui temi che gli sono più congeniali, come appunto la crisi dell’economia globale e la risposta altrettanto globale che dovrebbe innescare. Lo fa con il Group of Thirty o G30, un’organizzazione indipendente che riunisce il Gotha degli accademici e dei decisori pubblici e privati del mondo. Il rapporto pubblicato ieri (14 dicembre 2020, ndr) dal G30 e intitolato “Rivitalizzare e ristrutturare il settore aziendale dopo il Covid” è per l’appunto opera di un comitato copresieduto da Draghi e da Raghuram Rajan, professore di Finanza a Chicago dopo essere stato anche governatore della Banca centrale indiana. Le conclusioni del rapporto sono inequivocabili: si chiede ai governi “di progredire rispetto al sostegno ampio” della liquidità data a pioggia e di andare “verso misure più mirate focalizzate su quelle aziende che hanno bisogno di sostegno ma che ci si attende siano affidabili anche nella fase post-Covid” in modo che le economie dei loro Paesi emergano dalla crisi più forti. Una ricetta che potrebbe esporsi a critiche per la sua natura quasi darwiniana, basata sulla selezione delle aziende con più chances di sopravvivere e di prosperare per assicurare lo sviluppo dell’economia…”.

Viene in mente Steve Jobs, fondatore della Apple: “La morte è la più geniale invenzione della vita: perchè spazza via il vecchio per lasciare spazio al nuovo”. Ma Keynes, appunto – caro Manacorda – era darwiniano nella sua preoccupazione tutta tesa al mantenimento in vita dell’ordinamento capitalista stressato dal Venerdì Nero del ’29.
Questo punto di centrale importanza sul vero significato della Teoria Generale dell’Occupazione, è stato rivelato soltanto da due persone: Piero Ottone e Giorgio Dell’Arti.
Keynes era un incubo per Mussolini, così come lo è oggi per Giuseppe Conte – ambedue in “servitù volontaria” all’Ideologia, quella del dirigismo. Osservava Ottone nel suo testo anglofilo La scienza della miseria spiegata al popolo:
“… Dopo avere parlato dei vari controlli statali, da conseguire attraverso la politica fiscale e creditizia, e forse attraverso gli investimenti pubblici, Keynes aggiungeva… “Oltre a questo, tuttavia, non appare per nulla chiara la necessità di un sistema di socialismo di Stato che abbracci la quasi totalità della vita economica della comunità. Non è la proprietà dei mezzi di produzione che lo Stato deve assumere”. Egli voleva piuttosto “ogni specie di compromesso e di meccanismi che avrebbero permesso al pubblico potere di collaborare con l’iniziativa privata”.
Keynes era il padre, insomma, dell’economia mista. Le conseguenze pratiche si sono viste nelle nazioni scandinave: tutti paesi capitalistici che hanno goduto di un lungo periodo di alto livello produttivo, di piena occupazione, di grande prosperità, grazie a governi socialdemocratici… L’Italia ha “saltato” Keynes, e questo spiega il carattere più arcaico, non solo dei dibattiti economici e della pubblicistica economica, ma anche della vita politica e sociale. Quando il fascismo andò al potere, le dottrine imperanti erano quelle classiche, e la dittatura fascista cristallizzò la situazione. Nel ventennio mussoliniano, i cervelli furono impegnati a sviluppare il tema del corporativismo, senza accogliere i frutti delle esperienze straniere. I dittatori non amano gli economisti, perché credono di poter dirigere i fenomeni economici secondo i propri desideri e i propri capricci: lo si è visto con Mussolini, con Stalin, con Khrusciov. E Keynes era respinto dai fascisti perché, nonostante le innovazioni dottrinali, rimaneva un liberista, e riteneva che lo Stato dovesse intervenire “soltanto” quando le normali leggi economiche funzionavano in maniera poco soddisfacente; ma il liberismo, secondo il verdetto di Mussolini, era marcio e corrotto…”.

Il liberismo, secondo il verdetto di Elio Lannutti e Luigi Di Maio nel libro da essi scritto a quattro mani “Morte dei Paschi di Siena” edito da Paper First su “Il Fatto Quotidiano” – è marcio, e la “golden share” da loro anti-keynesianamente esercitata su Conte è un fatto; così come è un fatto che il furbissimo Romano Prodi ha recentemente ricordato l’atmosfera “fascista” del suo insediamento all’Iri nel 1982, gloriandosene – in piena egemonia delle Partecipazioni Statali –, e la testimonianza che gli era stata fornita da un certo Pasquale Saraceno sull’incontro tra Mussolini e Alberto Beneduce al tempo della fondazione dell’Iri (da “Se Romano Prodi cita Mussolini” a cura di Alessio Porcu): “La richiesta del Duce si era espressa con una sola frase: “Fate qualcosa per queste imprese”. Anche oggi, sperando di essere più tempestivi, bisogna fare qualcosa. Non certo un’altra Iri perché il contesto economico è totalmente cambiato, ma occorre certamente una politica pubblica che aiuti la ripresa delle nostre imprese”.
Peccato che Prodi, così sensibile alla “democrazia dell’applauso” più che alla veridicità dei suoi contenuti, si sia dimenticato di aggiungere che la sovrastruttura dell’Iri fu vista da Lord Keynes come una sconfessione in piena regola del New Deal in Italia.
E’ un fatto che la natura anti-politica e keynesiana del Gruppo dei Trenta, un’appendice della Commissione Trilaterale, è vista da Lannutti, Di Battista e Di Maio come la Spectre di James Bond poiché i Cinque Stelle hanno un complesso d’inferiorità verso l’establishment. E lo aiuta a capire perfettamente il cronista di razza Francesco Manacorda:
“… Il G30 non è ovviamente un organismo che possa prescrivere alcunché ai governi, ma il suo peso intellettuale e politico è forte, anche grazie ai nomi poderosi che lo compongono: tra gli altri la ex presidente della Fed Janet Yellen, l’ex segretario del Tesoro Usa Timothy Geitner, il premio Nobel Paul Krugman, l’ex governatore della Bank of England Mark Carney…”.

Il decalogo del G30 nei suoi dieci punti è opposto alla interpretazione “politica” che di Keynes Lannutti e Di Maio hanno dato nel loro libro “Morte dei Paschi”.
Sempre dal prezioso Manacorda: “… Nel decalogo del G30 c’è anche l’invito a evitare eccessi di statalismo: le forze di mercato dovrebbero potersi muovere liberamente, eccetto dove si verificano i cosiddetti “fallimenti di mercato”, come quello – precedente alla crisi – che vede le piccole e medie imprese in difficoltà nel finanziarsi…”.

Poi, Mario Draghi fa sua l’indicazione manifesto del giurista Ferdinando Cionti, in questo più britannico che italiano: “… Assieme al decalogo il G30 fornisce anche le sue “cassette degli attrezzi”, indicazioni pratiche… cambiando il diritto fallimentare in modo che la bancarotta non abbia più lo stigma tombale classico di alcune culture europee, ma assomigli più all’americano Chapter II che dà la possibilità di una ripartenza aziendale. Una rivoluzione, insomma, di fronte ai tempi eccezionali e difficilissimi che stiamo vivendo e che l’economia vivrà ancora a lungo”.

Ps – Il successo è l’altra faccia del fallimento. Nei paesi anglosassoni lo capiscono, in Italia no.
A quando la rivoluzione liberale, che dal 1992 si annuncia senza essere fatta?

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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