Finalmente è apparso il bilancio 2012 del Monte dei Paschi di Siena.
Un bilancio che, nella sua terrificante crudezza (più di 3 miliardi di euro di perdite– cioè circa 6000 miliardi di vecchie lire) permette di fare diverse interessanti considerazioni:
sinora da parte di (più o meno) tutta la stampa nazionale si sono attribuite queste perdite a due motivi principali:
- Un motivo “penale”: l’attività di un gruppo di dipendenti che (all’insaputa di tutti gli altri e soprattutto degli organi preposti al controllo) ha costituito la “banda del 5%”: cioè un gruppo che impiegava i fondi della banca per speculazioni avventate e non autorizzate a proprio esclusivo vantaggio
- Un motivo “ideologico”: la speculazione e le leggi del mercato hanno portato una banca sino a quel momento prudente, saggia, radicata sul territorio e, tutto sommato, ben gestita vicina al tracollo.
Ma poi sono apparse le cifre…
- le perdite dovute a investimenti finanziari sono circa 700 milioni (cioè neppure un quarto delle perdite totali)
- il resto delle perdite è dovuto a crediti inesigibili: cioè a soldi prestati senza le dovute garanzie a ditte o persone poco affidabili
- la gran parte degli introiti della banca vengono utilizzati per le spese ordinarie di gestione: cioè la banca non ha margini di guadagno sufficienti per coprire imprevisti o crisi finanziarie
Da tutto questo si evince facilmente che le crisi della banca non è dovuta tanto alle leggi del libero mercato o della globalizzazione, ma semplicemente a quella che i latini chiamavano “mala gestio”: una gestione mirata ad accontentare amici e potentati locali, assumere personale in funzione più delle richieste che delle esigenze dell’impresa. Non una “banca del territorio” ma più che altro una “banca degli amici”.
E la stessa conclusione della vicenda è stata improntata a criteri che nulla hanno a che vedere con i criteri di libero mercato, concorrenza e sana gestione economica: lo Stato ha fatto un cospicuo prestito al Monte (4 miliardi di euro, cioè una piccola manovra fiscale) che è indubbiamente ben remunerato (per non incorrere negli strali della UE), ma con un piccolo trucco: se tra quattro anni la banca non potrà rimborsare il prestito, lo Stato diverrà azionista della stessa. Bell’affare: 4 miliardi investiti in una banca che non riesce a restituire i propri debiti.
In questa maniera naturalmente i più penalizzati saranno i dipendenti (tra licenziamenti e contratti di solidarietà) e le imprese (che si vedranno ridurre sempre più quei finanziamenti tanto necessari in periodi di crisi).
La soluzione migliore sarebbe probabilmente stata quella che si applica in questi casi in un mercato libero (e che, per inciso, è stata adottata tanti anti fa per il Banco Ambrosiano): fallimento della banca, con immediata costituzione di una nuova banca per garantire depositanti, creditori e dipendenti.
In questo modo a pagare veramente sarebbero stati gli azionisti che per definizione sono quelli che rischiano in proprio: guadagnano se l’impresa è in utile, perdono se è in perdita.
Ma in questa maniera si sarebbe danneggiato proprio chi si voleva salvare e che era il maggior colpevole della situazione: la Fondazione, centro di tutti gli interessi politici, gli affari dei soliti “amici” e delle spartizioni clientelari.
Specchio di un Italia che non cambia mai
Angelo Gazzaniga