Il diarista e incisore romano del Settecento Francesco Valesio, nel suo Diario di Roma (1700-1742), ci informa del rinvenimento dello «scheletro di un grande elefante di cui se ne vendono l’ossa, comprate dà semplici per corna d’alicorno», effettuato nel maggio del 1704 nella campagna laziale.
La leggenda medievale dell’alicorno (alteraz. del lat. unicornis “unicorno”) nasce probabilmente durante l’età alessandrina, nei primi secoli dell’era cristiana. L’animale viene descritto come un cavallo bianco, con un corno nella fronte – simbolo di purezza mistica – che può essere catturato solo da una giovane vergine. Spesso, le strane “corna” di diversi animali come il dente di narvalo (un cetaceo dei mari artici), il corno di rinoceronte (in realtà, un ammasso di peli) le difese (o più comunemente “zanne”) di specie viventi o estinte di Proboscidati ma anche le vere corna di animali come l’orice, contribuirono a rievocare l’immagine di questo animale leggendario. Durante il Rinascimento, in Europa, il corno di tale creatura divenne uno degli ornamenti più ricercati nelle raccolte delle cosiddette «Camere delle meraviglie» e nella metà del XVI secolo non esisteva nobile italiano che nelle sue collezioni non possedesse almeno un frammento del prezioso reperto. Fino alla fine del Cinquecento si è continuato a credere nelle molteplici virtù del «corno di alicorno» non solo come rimedio contro qualsivoglia veleno ma anche contro l’ubriachezza, l’epilessia, le convulsioni, le febbri pestilenziali, l’avvelenamento da funghi, ecc…A partire dalla seconda metà del XVII secolo il termine «unicornu fossile» (letteralmente «fossile di unicorno») sarà usato in particolare per indicare i frammenti delle ossa lunghe di grandi dimensioni e le zanne fossilizzate di elefanti e mammut. Vi sono diversi esempi di «corna di unicorno» custodite nelle chiese e ancora oggi, ad Halle, in Germania, all’interno di una chiesa è esposta la zanna di un mammut sostenuta da una struttura in ferro battuto decorata con figure di unicorni. Athanasius Kircher in Mundus subterraneus (1665) descrive l’origine e la natura del famoso «fossile di unicorno» facendo una sorta di sintesi delle conoscenze medievali e rinascimentali dell’epoca secondo le quali si riteneva che l’unicorno, anche definito con il termine «Monoceros», esistesse realmente. Questo leggendario animale rimase un oggetto di interesse fino al XVIII secolo: celebre è la raffigurazione tratta dall’opera Protogaea di Gottfried Wilhelm Liebniz, pubblicata nel 1749, in cui compaiono le immagini di un enorme dente di un «animale marino», in alto, e lo scheletro composito di un «unicorno», in basso, identificate dal paleontologo austriaco Othenio Abel in Das reich der tiere (1942) rispettivamente nel dente di un mammut e nello scheletro composito delle ossa della medesima specie assemblate con quelle di un rinoceronte lanoso. Secondo Abel il corno probabilmente doveva essere la zanna di un giovane mammut che ancora conserva la sua tipica forma diritta, caratteristica peculiare di tutte le «corna di unicorno».
Ma tornando al racconto iniziale di Valesio, è possibile identificare – a detta dello scrivente – le ossa del «grande elefante…comprate dà semplici per corna di alicorno», con quelle di un elefante antico (Palaeoloxodon antiquus), una specie di elefante preistorico di grandi dimensioni, la cui presenza è ben documentata in Europa meridionale e in Italia, in particolare nell’area laziale, dotata di difese quasi diritte anche nell’adulto (da cui l’appellativo di «elefante dalle zanne diritte») e dunque sufficientemente credibili come «corna di alicorno», soprattutto per chi nel XVIII secolo era ancora disposto a credere nell’esistenza di questo leggendario animale e nelle mirabolanti virtù del suo corno, acquistandolo probabilmente anche a caro prezzo!
Carlo Canna