Un tempo nelle sue strutture finirono detenuti politici provenienti da tutta la Jugoslavia. Il gulag di Tito oggi non è che un mucchio di macerie, un posto fatiscente, abbandonato. Un totale, assurdo silenzio sovrasta tutto. È la sensazione che si prova a visitare Goli Otok, pietraia in mezzo all’Adriatico, riarsa dal sole d’estate e battuta dalla bora gelida d’inverno. Uno spuntone di roccia alto fino a 230 metri, posto in mezzo al Canale della Morlacca, tra l’isola di Arbe e la costa dalmata. È proprio qui che il “maresciallo” fece deportare, dal 1949 al 1956, tra i 16 e i 30mila prigionieri politici, prima i “cominformisti” – dopo la grande rottura con Stalin – e successivamente criminali “semplici”. Diverse centinaia morirono a causa dei trattamenti disumani subiti. Le cifre variano e nemmeno oggi, a distanza di tanti anni, è possibile conoscere i dati reali. Del resto, chi è sopravvissuto è rimasto profondamente segnato nel fisico e nello spirito, spesso reticente a ricordare la terribile eredità portatasi dietro al ritorno dall’Isola Calva.
Un marchio che porta ancora oggi Il fiumano Silverio Cossetto, 84 anni portati bene, era uno studente ventenne quando conobbe in prima persona l’inferno di Goli. Era un comunista libertario. Subì un processo farsa, fu condannato a 6 mesi di reclusione, che alla fine si trasformarono in 26. Cossetto, dopo un periodo passato nelle carceri di Fiume, giunse sull’isola nell’aprile del 1950 e ne rimase fino al gennaio 1951. Entrò poi nelle Brigate di lavoro dislocate in Bosnia, per essere liberato definitivamente alla fine del ’51. Visse, specialmente all’inizio, fra varie difficoltà, con la continua sensazione di essere braccato. “Ho avuto paura in continuazione – ci racconta oggi, facendoci da cicerone nell’ex penitenziario –. Per me, ma soprattutto per la mia famiglia. Dai vent’anni in su la mia vita è stata un tormento. Goli è un marchio che porto ancora oggi e per il quale ho subito vessazioni, provocazioni, umiliazioni, maltrattamenti e discriminazioni di ogni genere”. “E per cosa? Per aver avuto un momento d’indecisione a schierarmi politicamente nel dissidio tra Tito e Stalin. Insomma, per avere ragionato con la mia testa, rifiutando la dottrina imposta. Quando fui condannato ne rimasi molto scosso – ci dice – e ancora ignoravo che i sei mesi si sarebbero trasformati in anni. Quello che mi attendeva a Goli non me lo sarei mai immaginato”. Trovare i «carnefici» per avere risposte Che cosa si prova a tornare sul posto, sessant’anni, dopo? “Le emozioni sono oramai sbiadite, sostituite da un senso di vuoto, quasi d’indifferenza. Provo comunque l’interesse di trovare le persone che hanno prodotto un simile regime e domandar loro il perché. Chiedere delle spiegazioni: perché abbiamo dovuto subire cose del genere, quando oggi crimini ben più gravi rimangono impuniti?”. Come trova oggi Goli Otok? “Vedo soltanto le rovine degli edifici eretti dopo la mia permanenza sull’isola. Ed è la testimonianza diretta che neanche il governo è riuscito a conservare la macchina penitenziaria per coloro che non la pensavano allo stesso modo. Oramai è un luogo abbandonato da tutti, eccetto che dai curiosi che vengono a vedere dove e in che condizioni vivessero i detenuti”.
Animali randagi Ci descriva il sistema adottato dal penitenziario. “Tutto era predisposto, nei minimi particolari, per togliere al detenuto ogni briciolo di dignità. Nei campi della Germania e della Siberia veniva annientato il corpo, mentre a Goli era eliminato l’essere umano nella persona. Questa era la logica di base. Le guardie avevano il compito di vegliare che nessuno potesse fuggire, mentre i detenuti si confrontavano da soli. E ciò rappresentava la massima atrocità. Ogni prigioniero, appena arrivato, doveva fare relazione all’‘isljednik’, un funzionario omologo al referente, al quale confessava le proprie ‘colpe’ e quelle degli altri. Ossia comportamenti scorretti o frasi scappate in momenti di debolezza. Tutti erano delle possibili spie, non potevi fidarti di nessuno. Anche il minimo cambiamento nell’abituale atteggiamento poteva far nascere dei sospetti per i quali venivi richiamato. E lì iniziavano i maltrattamenti.
Arrivando all’isola si perdeva il proprio nome e si diventava parte della Banda. Il nostro lavoro era spaccare pietre. Ma non con il martello, bensì pietra contro pietra. E portarli con la ‘civiere’, una specie di carretta senza ruote, di lunga portantina. Per ogni minima infrazione erano pronte punizioni severe. E così ci trasformarono in animali randagi educati nel più puro egoismo, al fine di salvare la propria vita. Una massa di individui isolati e disperati, pronti alle bassezze più infamanti pur di sopravvivere”.
Camminando per Goli, Cossetto ci indica il luogo dove fu prelevato dalla pancia della “Punat”, sollevato come un gattino, per i capelli e le spalle, e gettato di peso sulla riva, per metterlo davanti a un budello, formato da due lunghe file, una di fronte all’altra, di detenuti indemoniati e urlanti. Era il “Kroz stroj”, l’abituale pratica educativa/ punitiva che fungeva anche come benvenuto.
“Da una folla che gridava ‘Banda’, ‘Tito Partija” ricevetti una dozzina di colpi, graffi e sputi – confessa Silverio Cossetto –. I pugni vennero avanti e indietro come stantuffi. Capii subito che dovevo correre il più velocemente possibile verso la fine della fila per incassare quante meno botte, ma dopo pochi passi caddi a terra. Fui sollevato dal fiumano e amico Gino Kmet, che mi disse ‘Cossetto, anche tu qui?’, fece finta di darmi qualche pacca e la cosa mi permise di correre ancora più velocemente verso la fine. Ero completamente nero, ricoperto di lividi e sangue”.
Come si svolgeva la vita all’interno del campo? “Botte e violenza in continuazione. Una cosa immonda. Non era solamente il castigo fisico a lasciare il segno nel corpo e nell’anima, ma anche le trovate dei ‘sobnik’ (i kapò, ndr) che avevano una baracca apposita in cui picchiavano i detenuti nel corso dell’intera notte. Strilli, urla, pianti non permettevano a noi altri di chiudere occhio. Alcuni morti sono stati seppelliti a Goli, altri nel cimitero di Fiume e altri ancora sono finiti in mare. C’era poi l’Ora politica, un mezzo di lavaggio di cervello, dove commentavamo gli articoli dei giornali. Dovevamo dimostrare di essere pentiti del nostro ‘tradimento’. Impossibile uscirne mentalmente indenni”. “Ancora oggi non riesco a scacciare dalla mente certe cose. Porto una cicatrice interna che continua a sanguinare. Comunque, non ho mai dato o confessato alcuna informazione. Non ho permesso, a rischio della vita, di diventare uno strumento dell’Udba. Anche una volta libero, quello che mi abbatteva era la continua pressione esercitata nei miei confronti di collaborare con i servizi. Non lo feci mai. La mia dignità è pulita”. «Ho vinto, sono sopravvissuto»
Prova rancore?
“Non posso negare che proverei del piacere a riservare a un qualsiasi aguzzino dell’Udba l’1 p.c. di quello che ho subito io. Ma ormai sono vecchio e la forza mentale è l’unica che mi sia rimasta.
Poi tantissimi di loro sono morti. In qualche modo posso considerarmi vincitore perché sono riuscito a sopravviverli”.
Proseguendo nel nostro percorso di visita all’Isola, Silverio Cossetto, ci mostra anche il punto dove fu sepolto da pietre mentre caricava un vagonetto: persi l’equilibrio su un terreno franoso, scosso dalle mine, e così finii in mare in una notte di tempesta.
Come vi arrangiavate per le cose quotidiane, tipo l’igiene personale, la rasatura dei capelli e della barba?
“In nessun modo. Non esisteva alcuna igiene. Ogni tanto ci spidocchiavamo e ci toglievamo di dosso la sporcizia, almeno dalle parti del corpo in cui questa era ben visibile. Tutte cose facili a dirsi ma impossibili a farsi senza un po’ d’acqua dolce e sapone. Anche con la bora nei mesi invernali sapevamo lavarci in mare e come sapone adoperavamo dei sassi che ci portavano via anche la pelle. I pidocchi rappresentavano un grande problema. L’intero campo era infestato da questi parassiti, ai quali di notte s’aggiungevano anche le cimici e pulci. La mancanza di una dieta corretta provocava seri danni al fisico. Soffrivo di avitaminosi e andavo camminando con i piedi gonfi e mezzo cieco. Dai 70 chili di peso che avevo prima di giungere a Goli, scesi a soli 42 chili. Le ‘opanke’ nel contatto con le rocce dell’Isola si consumavano velocemente e avevo dei continui dolori ai piedi”. Nella disgrazia Cossetto ha avuto un po’ di fortuna: “Per puro destino fui trasferito a lavorare con un gruppo di pescatori impegnati a procurare il pesce per la mensa dei sorveglianti. Il nuovo lavoro era completamente diverso da quello precedente. In pratica, trovandomi in barca e seppure sorvegliato, non subivo le angherie praticate nel campo. Poi entrai nei ranghi della Brigata di lavoro. Assieme ad altri fui dislocato in Bosnia per la costruzione della ferrovia. Lì la vita nel campo era tutta un’altra cosa rispetto a Goli, e presto fui dichiarato libero. Una volta tornato a casa, tutti mi evitavano come se avessi la peste. Per molto tempo rimasi isolato da tutti, ma nonostante ciò sono riuscito ad avere una splendida famiglia, con tante soddisfazioni”.
Goli Otok*
*Sul Gulag di Tito, LibertatesVideo: Goli Otok, l’isola maledetta