Il blocco di potere cementatosi attorno a Matteo Renzi pare all’apogeo: l’abilità manovriera – e in definitiva politica – del leader, unita alla evidente debolezza degli avversari, a corto di idee innovatrici anche nell’ultimo raduno triangolare di Bologna, esalta per contrasto le caratteristiche del “democratic catch-all-party”: il renzismo come asso pigliatutto, e sullo sfondo la prospettiva di durare tanto a lungo da modificare l’intero sistema.
E tuttavia, c’è un tempo per vivere e un tempo per finire, come in ogni faccenda umana; si può tracciare una verosimile parabola del renzismo.
Esso assomiglia a una torta confezionata su tre strati.
Quello superiore è formato da una meringata spumosa, ottima per palati senza troppe pretese: un conformismo superficiale e politicamente corretto, sorridente e ottimista a oltranza, molto digitale, fatto di slogan sportivi e annunci di primati, tweet a effetto buoni per il consumo di un secondo ma replicati nelle ventiquattr’ore successive dai media compiacenti; luoghi comuni del tipo matrimonio per tutti e quote rosa e riscaldamento globale e flessibilità nei conti della Ue e Onu intoccabile, eccetera.
Al di sotto di questo strato l’impasto della torta si rivela molto più denso: un riformismo magmatico e camaleontico, il cui scopo è, una volta raffreddato, cementare la presa sul potere. Il segreto del riformismo renziano è infatti il perpetuum mobile, una girandola di proposte alle quali un qualsiasi avversario o semplice critico è impossibilitato a reagire in modo meditato e razionale: non ce n’è il tempo, perché quando lo si affronta il perpetuum mobile è già oltre, scivola dalle mani come sapone, si è trasfuso in altre novità, sorprese, provocazioni. Perciò i temi agitati e riproposti enfaticamente – dalla virtuale abrogazione del Senato alla legge elettorale cucita sulle esigenze del Pd, dalla tassa abolita a metà sulla prima casa all’innalzamento del limite dei contanti, dal jobs act alle unioni gay (l’uno e le altre a gravare sul bilancio pubblico, ma su questo si sorvola), dalle schermaglie mediatiche con la Merkel al dilettantesco incontro con Putin: tutte queste iniziative sono in realtà puramente contingenti, vaporose, soggette a revisioni continue in omaggio all’unico vero dogma: muoversi in fretta per non lasciarsi afferrare né criticare, e intanto consolidare l’impasto.
Ma ecco il terzo strato, alimentato da un cinismo politico totale; estraneo a programmi e valori, segretamente disinteressato al merito stesso delle proposte avanzate. Qui si percepisce la forza reale del renzismo: il suo leader ha definitivamente cancellato dalla scena politica e dal vocabolario la distinzione programmatica fra destra e sinistra (compresi i derivati, il centrosinistra e il centrodestra tradizionali). Questa è la novità, e anche il merito storico di Matteo Renzi: aver distrutto le vecchie categorie politiche del Novecento, appropriandosi di tutto ciò che serve al momento e pronto a lasciarlo in quello successivo, senza alcun pensiero forte retrostante (come a suo tempo il New Labour di Blair). Un tale metodo all’insegna del “conformismo modernista” consente di ridicolizzare gli avversari, sia che si sforzino di controbattere (dalle vecchie posizioni di “sinistra”, “centro” o “destra”) sia che tentino di venire a patti. Anzi, la torta renziana per essere gustata ha bisogno di critici d’antan, massimalisti o populisti – meglio se entrambe le cose.
Ma prima di concludere che moriremo d’indigestione, ne passa. Ciascuno degli strati, preso isolatamente, è in realtà deperibile. Incalzarlo culturalmente, contrapporre un programma radicalmente liberale al camaleontismo riformista, sfidare con passione ed etica pubblica il culto del potere, lascia intravedere un possibile futuro diverso. Non moriremo renzini.
Dario Fertilio