Una critica formale e sostanziale all’ultimo libro di Houellebecq “Sottomissione”
I fallaciani l’avevano salutato come il nuovo Céline. Quando è uscito il romanzo apocalittico/anti-islamico del controverso scrittore Michel Houellebecq, “Sottomissione”, per i tipi della Bompiani, in molti avevano esaltato il libro come un capolavoro. Soprattutto i fautori del conflitto di civiltà l’avevano indicato come un profetico monito affinché il Vecchio continente non si trasformi nella tanto paventata Eurabia. “Sottomissione” infatti descrive le vicende di un professore universitario che, in una Francia di un futuro neanche troppo lontano, assiste alla salita al potere, nei palazzi della politica e degli atenei, di una classe dirigente musulmana, fatta di arabi naturalizzati ma anche di convertiti autoctoni . Però quello che poteva essere un romanzo epocale, sulla scia di un “1984” orwelliano con la mezzaluna al posto della falce e il martello, si rivela ben poca cosa, una delusione o meglio un’occasione mancata.
Viene da chiedersi se i critici nostrani che ne hanno tessuto le lodi lo abbiano realmente letto. Infatti come si può paragonare una scrittura scialba, piatta, senza colpi di scena, e soprattutto senza ironia, alla violenza innovativa e realistica che contraddistingueva l’energia di un L.F. Céline? L’autore del “Viaggio al termine della notte” è stato per il mondo francese quello che James Joyce ed Ernest Hemingway sono stati per quello anglosassone: una rivoluzione del linguaggio e dell’immaginario collettivo. Houellebecq invece ha il ritmo banale e fintamente colloquiale del giornalismo, o del romanzo d’appendice, buono per riviste femminili, abituate a giocare nel torbido dei sentimenti, tra pornografia e paure verso il pericolo islamico.
La trama poi è di una povertà disarmante, con un finale da latte alle ginocchia. Cerco di riassumerla nel più breve spazio possibile, per evitare di annoiare eccessivamente il povero lettore (che avrà pietà di me, considerando che mi sono sorbito 252 pagine di questo “capolavoro”, per gusto masochistico ma anche per vedere fino a che livello – bassissimo – sono capaci di arrivare gli autori odierni di bestseller). Il protagonista, che rispecchia in parte la mentalità dell’autore, è un professore della Sorbona vicino alla pensione. Subito dipinge a tinte fosche un ambiente universitario cupo, con inquietanti studentesse, ovviamente in burqa nero, che passeggiano per i corridoi di un ateneo dove tutti temono non meglio precisate aggressioni da parte dei sempre più numerosi musulmani. Il professore è amante di una studentessa ebrea, tale Myriam, che impaurita dall’atmosfera che si è venuta a creare in Francia fugge in Israele. Lo stato d’animo del nostro è oltremodo confuso: “Non avevo neanche voglia di scopare, o meglio, avevo un po’ voglia di scopare ma al tempo stesso anche un po’ voglia di morire (…) Avrei dovuto chiederle di farmi un pompino, in quel preciso momento, la cosa avrebbe dato alla nostra coppia una seconda possibilità”. La noia che domina la scena, quel nichilismo d’accatto un po’ al chilo, magari qualche aforisma di Cioran maldigerito portano a questi gioielli letterari. Intanto accanto ai Fratelli musulmani avanzano anche i seguaci del Fronte Nazionale. Sesso e conflitto di civiltà: la ricetta del nostro per stuzzicare la curiosità del lettore. “Se in Europa dovesse scatenarsi a breve un’insurrezione generale, potrebbe partire dalla Norvegia o dalla Danimarca; anche il Belgio e l’Olanda sono zone potenzialmente molto instabili”, fa dire a un interlocutore “identitario” (leggi fascista).
Nel mirino il multiculturalismo fallito nelle culle delle superdemocrazie: su questo punto Houellebecq può anche avere ragione. E’ noto infatti che in questi Paesi dove si mettono al bando i simboli religiosi (con la Francia a fare da capofila nella crociata laicista) e si parla in ogni momento di multiculturalismo, tolleranza, antirazzismo ecc. ecc. con sempre lo stesso tono fra il moralistico e l’accusatorio, si creano ghetti dove si emargino le famiglie islamiche, non integrate, orgogliosamente chiuse nella loro diversità rispetto al modello europeo.
Ma qual è questo modello? Torniamo al nostro professore. Prepensionato dalle nuove autorità accademiche islamiche, il nostro intraprende un viaggio fuori città. Tornato a Parigi pensa bene, visto che la sua Myriam è ormai al sicuro (?) in Israele, di contattare una escort e la sceglie islamica. “Mi eccitava molto, tenuto conto delle circostanze politiche globali, scegliere una musulmana”, ovviamente “sfuggita al movimento di reislamizzazione” e infatti è diventata una troia. L’incontro è all’insegna del romanticismo: “Quando si mise debolmente a gemere sentii che cominciava ad aver paura di provare piacere – e forse dei sentimenti che potevano derivarne; si voltò in fretta per farmi venire in bocca”. Eh sì, i valori occidentali che “sfuggono alla reislamizzazione”. Tuttavia con il passare del tempo il nostro professore si rende conto che non si può contrastare il predominio di Allah e infine, per tornare a contare nel mondo accademico e culturale, decide di convertirsi alla fede coranica e abdicare alla sua identità (quale identità? Verrebbe da chiedersi – quella del sesso libero e dei centri commerciali?). Il passaggio è indolore: dalle pagine di Houellebecq non emerge alcun pathos, nessuna scelta drammatica. La formula di rito (“Testimonio che non c’è divinità se non Dio e che Maometto è il suo profeta”) dovrebbe decretare un tragico suicidio dell’Occidente e invece è solo il banale calcolo utilitaristico di un uomo che vuole tornare alle sue lezioni e alle studentesse, che ora sono “belle, velate, timide”.
Il romanzo si conclude con l’immancabile “Non avrei avuto niente da rimpiangere”. La morale che se ne trae potrebbe apparire paradossale e certamente non rientra nelle intenzioni dell’opera dello scrittore francese: se l’Occidente, decadente e corrotto (di cui Houellebecq è specchio e prodotto), non ha più nulla da dire, allora tanto vale convertirsi all’islam. Un risultato sorprendente, su cui i fallaciani dovrebbero riflettere.
NOTA TERMINOLOGICA – Il romanzo di Houellebecq si intitola “Sottomissione”. Ora è risaputo che “sottomissione” è uno dei termini con cui viene tradotta la parola islam. E’ ovvio che nell’interpretazione più diffusa tale sottomissione è sinonimo di ubbidienza ai precetti di Allah così come sono codificati nel Corano o ancora meglio abbandono alla volontà di Dio. Ma nelle interpretazioni più rigide in voga presso alcune sette sunnite, come i wahabiti (di origine saudita) che ispirano l’ideologia dell’Isis e di altri fanatici, può essere anche essere letta come sottomissione della donna all’uomo, dell’infedele al fedele, del buon musulmano allo Stato islamico. In questa ottica è ovvio che non vi è nulla di più lontano non solo dal pensiero liberale ma anche da quello cristiano in tale concetto restrittivo e coercitivo di sottomissione. Un concetto estraneo al Dio dei Vangeli che è Amore e libertà. Tuttavia va notato che il rigido monoteismo, l’iconoclastia e una certa violenza propria di alcune interpretazioni estremistiche dell’islam sunnita, minoritarie ma non per questo meno pericolose, si avvicinano curiosamente a una certa visione ebraica dell’Antico Testamento, così come è vissuta dagli elementi più ortodossi del mondo giudaico. Si sa che Maometto studiò presso i rabbini a Medina e lì apprese molti elementi teologici che poi rielaborò nel suo insegnamento: non solo l’angeologia, ma anche il rigido monoteismo e l’iconoclastia. Non è un caso che nel mondo sunnita, come in quello ebraico, l’arte figurativa non ebbe uno sviluppo paragonabile a quello del mondo cristiano: il divieto di dipingere immagini portò i popoli semiti (arabi ed ebrei) a sviluppare maggiormente le arti astratte (gli arabeschi ad esempio). E qui giova ricordare un altro aspetto importante della questione: nei giornali è diffuso l’uso della parola antisemitismo per indicare atti o opinioni animati da sentimenti antiebraici. Ma anche gli arabi sono semiti. Si arriva persino al punto di parlare di antisemitismo arabo! Mentre sarebbe più corretto usare sempre e solo il termine antiebraismo o antigiudaismo.
Andrea Colombo