Per l’Albatros Carlo Lottieri dimostra come la globalizzazione sia la via maestra per un libero mercato
La globalizzazione non piace: non piace a destra (tra i molti conservatori che hanno nostalgia della più compiuta statualità novecentesca), e naturalmente non piace neppure a sinistra, dove no global è divenuto da tempo un’espressione con cui si indica il tentativo di riattualizzare tutte le vecchie utopie post-marxiste e le illusioni di quanti sono alla ricerca di una società in cui i fiumi scorrano verso l’alto e portino ovunque latte e miele.
La globalizzazione non piace perché ogni volta che un mercato si apre verso l’esterno quell’ordine economico è chiamato a mutare, e molti scoprono che le loro posizioni (e i loro redditi) non rispondevano a un profitto legittimo – liberamente deciso dai consumatori – ma erano invece il frutto di un posizione protetta. Non erano soldi guadagnati, ma in qualche modo estorti.
Prendiamo un esempio semplice semplice. Un caso caratteristico di situazione protetta è quella che vede farmacisti e notai fare soldi a palate senza alcuna valida giustificazione. Perché ciò avviene? Perché vi è solo una farmacia ogni poche migliaia di abitanti, e gli studi notarili sono ancor meno. Cosa succederebbe se si liberalizzasse l’accesso a queste attività e si togliessero vincoli di ogni genere? Notai e farmacisti si troverebbe a guadagnare molto meno.
È sulla base di ragionamenti di questo tipo che l’apertura dei mercati viene avversata.
Nel caso delle professioni protette, sia chiaro, siamo di fronte ad una specie di “furto con scasso”: nel senso che abbiamo corporazioni ben consapevoli di quanto sia ingiusta la situazione presente, ma che nonostante tutto negano i diritti dei consumatori e dei loro potenziali concorrenti semplicemente perché difendono interessi costituiti.
Nel caso del tessile italiano che perde colpi di fronte alla concorrenza cinese la situazione, in realtà, è un po’ diversa. In questa circostanza, una società fino a ieri dominata dalla miseria più nera (dal più protezionista dei protezionismi, il totalitarismo comunista) comincia a veder circolare ricchezza. La Cina in questi anni è cresciuta al 10% all’anno – il che non è molto, per la verità, se si considera il punto di partenza… – ed è entrata in quella spirale virtuosa che conobbero Italia e Germania negli anni Cinquanta, e poi il Giappone, Taiwan, l’Irlanda, l’India e così via. Ad ogni modo, oggi la crescita dell’economia cinese ci permette di comprare blue-jeans a pochi euro. Difficile che le nostre aziende possano reggere il confronto, ma ancor più complicato è sostenere che questo – per noi – sia un danno.
Quando un’economia si apre a un’altra, infatti, quello che avviene è una nuova divisione del lavoro. Se i cinesi sono abili nel tessile, essi invadono i mercati europei: ci portano ad esempio vestiti e si portano a casa euro. Questo crea problemi di occupazione in alcuni nostri distretti, ma al tempo stesso aiuta a difendere il potere d’acquisto. Quegli operai che oggi guadagnano solo 1.000 euro al mese possono, per fortuna, trovare questi prodotti a buon mercato: se dovessero per forza rivolgersi ad aziende europee per loro sarebbe impossibile sopravvivere.
Che fine fanno, però, quegli euro? Si può certamente immaginare che un po’ vengano capitalizzati: che i cinesi, insomma, decidano di risparmiare euro in vista di investimenti futuri. Fin che le cose stanno così, per l’Europa è una vera pacchia. La Bce produce carta moneta e i cinesi lavorano per i consumatori europei.
In realtà, però, questo non può mai durare troppo a lungo. Se i cinesi accettano euro è solo perché ritengono che con questi soldi essi sono in grado di ottenere i nostri prodotti. Ecco quindi l’arcano autentico della globalizzazione: se i cinesi crescono nell’esportazione del tessile è solo perché si specializzano in tale settore per comprare altrove i beni che non producono da sé. Nessuno (in sostanza) esporta senza importare: perché si tratterebbe di fare beneficenza.
Il guaio è che l’economia basata sulla moneta (invece che sul baratto) tende purtroppo ad occultare – anche a causa della demagogia di tanti politici di destra e sinistra – questa verità elementare: che sul mercato si scambia sempre un bene contro un altro bene (o servizio). Io compro qualcosa che altri fanno perché vi è chi compra ciò che faccio io. Il che significa che se un paese importa taluni prodotti è perché, in un modo o nell’altro, prima o poi è chiamato ad esportarne altri.
In questo senso, le immagini catastrofiste di un’Europa in cui non si produce nulla perché tutto viene fatto in Cina sono veramente senza senso. Perché i casi sono due: o l’Europa continua a produrre (e allora compra cinese solo perché i cinesi comprano europeo); oppure l’Europa entra in un declino inarrestabile e a quel punto non sarà più in condizione neppure di comprare cinese, dato che gli asiatici non vorranno più i nostri prodotti. Esattamente come oggi noi non compriamo beni prodotti in Sudan o nel Mali, dato che là non ci è quasi nulla che ci interessa.
In sostanza, il protezionismo è teoricamente indifendibile, perché è teoricamente indifendibile la solitudine. L’uomo cresce nel dialogo e nello scambio, e non certo nell’autarchia. Se il protezionismo fosse “sensato”, bisognerebbe non solo proteggere l’Europa dai prodotti asiatici, ma anche l’Italia da quelli europei. E io comincerei a chiedere la protezione della Lombardia dal Veneto, e Brescia da Bergamo.
Non solo. Ogni macchina utensile prodotta nella parte Est della mia città “distrugge” posti di lavoro nella parte Ovest, e così via. Per questo motivo, i protezionisti coerenti dovrebbero tutti seguire le orme di un personaggio di nome John Zerzan, che al fine di realizzare una vera eguaglianza propone la fine della divisione del lavoro e – di conseguenza – il ritorno al Paleolitico. Dietro ogni protezionista, insomma, c’è un nemico della civiltà: c’è chi crede che la divisione del lavoro (senza la quale non avremmo avuto Mozart né Bill Gates, Goethe né Michael O’Leary, il geniale artefice di Ryanair) comporti una perdita netta, la creazione di “dipendenza”, l’avvento di un ordine di diseguali, il successo di pochi e la sconfitta di tutti gli altri.
Gli anti-globalizzazione di destra e di sinistra, allora, sono solo degli Zerzan pavidi e incoerenti. Se avversano lo scambio e la divisione del lavoro, essi l’accettano all’interno di aree nazionali o continentali, senza comprendere che se il loro ragionamento fosse fondato dovrebbe valere anche lì.
Nella sua prefazione ad una antologia di scritti di Frédéric Bastiat (Ciò che si vede, ciò che non si vede, promossa dalla Fondazione De Ponti ed edita da Rubbettino), l’economista francese Gérard Bramoullé sottolinea come la difesa coerente del libero mercato sviluppata dal grande libertario di metà Ottocento poggiasse su una solida conoscenza della logica classica. E non vi è il minimo dubbio che l’aver tolto Aristotele dal cursus studiorum delle classi dirigenti europee ha prodotto guasti illimitati di cui non comprenderemo mai a sufficienza le molteplici, e tragiche, implicazioni.
Carlo Lottieri