il coraggio di dire la verità non ha colore politico: serve solo il coraggio dell’uomo
Otello Montanari è uno dei pochi ex comunisti del Novecento il cui nome resterà scolpito nel marmo della Storia, quella con la «S» maiuscola. Non per il suo portamento autorevole, la voce stentorea, il fascio dei giornali e la borsa stracolma scritti e documenti, di quelle disegnate apposta per un vecchio funzionario del Pci. Nemmeno per la sua oratoria da comizio, disseminata di termini demodé, che lo faceva tanto condottiero socialista con i capelli al vento dei tempi di Prampolini.
Resterà nella Storia, Otello Montanari, per il coraggio che ha avuto nel mettersi contro una città rossa e il suo partito egemone, il Pci coi suoi successori, sostenuto da pochi ma tra l’indifferenza e il digrignare di tanti (che pure a metà aprile gli hanno reso omaggio alla salma nella camera ardente allestita nel Museo del Tricolore di Reggio Emilia) quando lui con mezza riga di articolo, “Chi sa parli”, spazzò via una tradizione di silenzi, di omertà e di connivenze, restituendo in qualche modo l’onore a una sinistra che lo aveva perduto tacendo per decenni sulle stragi, gli omicidi e le infamie del dopoguerra emiliano.
Non solo la sinistra, ma l’Italia deve dunque molto al coraggio di Otello Montanari, deputato comunista negli anni Sessanta, politico con l’imprinting dell’agitatore, studioso di storia, morto a 92 anni (li avrebbe compiuti a maggio) nella sua casa di Piazza Fontanesi a Reggio, avendo accanto a sè la moglie Maria Rosa e la figlia Laura.
Certo, era legittimo attendersi ben altra partecipazione ai funerali, rispetto al centinaio neanche di amici e soprattutto vecchi compagni del Pci che gli hanno tributato l’ultimo omaggio a palazzo Casotti. Nulla di paragonabile all’eco che la sua scomparsa ha ricevuto nei grandi media. Nessuno è profeta in patria, del resto.
Davanti al feretro, il presidente dell’Anpi Ermete Fiaccadori non ha nascosto il «pesante ostracismo» cui Otello Montanari fu sottoposto nel partito, il Pci-Pds, con l’espulsione dall’Anpi e nella città, che di fatto lo isolò non risparmiandogli malignità e infamie subito dopo il suo «Chi sa parli» scritto nell’agosto 1990 in chiusura di un articolo consegnato al Resto del Carlino.
Quella frasetta mise in moto un sisma giudiziario sino alla revisione dei processi don Pessina e Mirotti, con la riabilitazione piena del comandante Diavolo Germano Nicolini – dieci anni trascorsi in galera da innocente – e di Egidio Baraldi, ma soprattutto provocò uno sciame sismico politico: la sinistra e l’antifascismo venivano chiamati a rispondere delle proprie responsabilità per la prima volta dal cuore della sinistra rocciosa, quella del luglio 60 e dell’oceanica adunata con Berlinguer.
Otello Montanari difendeva strenuamente la Resistenza (il partigiano Jack fu crivellato da otto colpi nel corso di uno scontro a fuoco con un ufficiale delle Ss italiane, rimanendo per sempre offeso a una gamba) ma seppe dimostrare che il revisionismo degli eventi, lungi da essere una parolaccia impronunciabile, era invece una necessità. E che si doveva avere il coraggio della revisione, pur senza rinunciare alla propria storia e ai propri principi.
Studiava e scriveva instancabilmente, e questo lo portò a dubitare sempre, praticando una personalissima Lode al Dubbio brechtiana, pronto mettere in discussione verità ritenute incrollabili. Fu stalinista nella sua gioventù, come lo erano tutti nel partitone rosso, tanto che nel 1951 dopo la crisi innescata dalla rottura di Magnani e Cucchi, diventò il numero due della Federazione del Pci di Reggio Emilia, appunto la più stalinista d’Italia. Nondimeno aveva gli occhi e la testa aperti su un mondo in vorticoso cambiamento, aveva la capacità e il coraggio delle revisioni in successione e dell’autocritica, che lo portarono nel tempo a impegnarsi per la pace e la distensione, per difendere la legalità costituzionale negli anni di piombo (subì anche minacce non trascurabili) e per squarciare, con la regia dell’allora segretario provinciale del Pci Vincenzo Bertolini, la coltre di omertà che circondava e ancora in gran parte circonda delitti e fattacci del dopoguerra reggiano. Pagò un prezzo politico enorme in termini di emarginazione, di allontanamento dall’istituto Cervi, di estromissione dall’Anpi. Lo visse con grandi sofferenze e un’amarezza che non riuscì mai a scacciare dai suoi pensieri. Nonostante tutto, continuò a chiedere luce sulle pagine oscure, come sulla fucilazione di Facio, comandante comunista ammazzato da comandanti comunisti, di quel calabrese Dante Castellucci braccio destro di Aldo Cervi ai Campi Rossi, diventato un eroe partigiano in Lunigiana ma condannato a morte dal Pci.
In tale evoluzione personale, politica e di pensiero, diventò un gigante nell’impegno per affermare il primato di Reggio nella nascita del Primo Tricolore e nella battaglia – condivisa con l’ex sindaco di Reggio Emilia Antonella Spaggiari e il presidente Carlo Azeglio Ciampi – per il riconoscimento legislativo del vessillo nato a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797 e l’istituzione della Festa della Bandiera, come per la nascita e la gestione del museo del Tricolore. Museo che, quando saranno trascorsi i termini di legge, converrà intitolare proprio a Otello Montanari.
Questo suo impegno per la concordia, i valori comuni della Patria, le battaglie di verità, spiega perché era stimato e ascoltato come voce autorevole anche in ambienti distanti da lui. Nel giorno della sua scomparsa, il vescovo Camisasca è stato il primo a scrivere che il suo «Chi sa parli» resterà nella storia. E in un’intervista rilasciata a Italo Cucci, Amedeo di Savoia Aosta lo ha ricordato come una persona «straordinaria e dolcissima» e «un vero galantuomo». «Ho perduto un amico, mi dispiace aver perso un gentiluomo di una qualità eccellente», ha detto Amedeo d’Aosta, ricordando fra l’altro un pranzo a base di cappelletti in un ristorante di Reggio insieme a Otello, a Nilde Iotti e al deputato di An Giuseppe Basini: «Abbiamo chiacchierato, abbiamo parlato del dopoguerra con un senso di pace straordinario, proprio di chi proviene da parti diverse. Un dialogo con grande civiltà e rispetto della posizioni reciproche».
Questo è stato Otello Montanari: un uomo di verità, capace di riconoscere gli errori, uomo di rottura proteso instancabilmente al dialogo. Lui sì che i muri li ha abbattuti davvero.
di Pierluigi Ghiaini