Nell’ultimo libro di Pansa un modo diverso di narrare la storia, ma con una provocazione: il fascismo nasce dal socialismo del primo dopoguerra
A chi per prima cosa, in ogni nuovo libro di Pansa, cerca l’eresia ideologica, diciamo subito che il suo ultimo Eia eia alalà (Rizzoli, pp. 369, euro 19,90) riserva una provocazione degna dell’autore: il nero ideologico è figlio del rosso, il fascismo nasce dal socialismo, lo squadrismo l’hanno plasmato quelli che “volevano fare come in Russia”. Più precisamente, il terreno di coltura della violenza a suo giudizio è stato dissodato, durante il famoso e caotico biennio rosso seguito alla fine della Grande Guerra, da un “tridente formidabile: le amministrazioni comunali, le leghe e le cooperative”, naturalmente di sinistra.
Con questo, Giampaolo Pansa spinge alle estreme conseguenze una teoria che potrebbe essere accettata dalla storiografia marxista più ortodossa: il fascismo come “controrivoluzione preventiva” attuata dalla borghesia, per mezzo dei suoi sicari, allo scopo di stroncare il potere in ascesa delle masse proletarie. Solo che l’autore accompagna il concetto con altre considerazioni decisamente revisioniste: denuncia i soprusi dei rossi nei confronti degli agrari che stavano per essere privati dei diritti di proprietà sulle loro terre; accompagna la nascita delle squadre nere, e delle loro prime ardite spedizioni punitive, certo senza compiacenze ma attento anche a cogliere, dall’interno, le motivazioni e le speranze sincere di rinnovamento politico dei loro militanti. E ne rintraccia ambizioni, pulsioni violente alternate a soprassalti morali, ripercorre congiure e vendette, quasi nell’intento di trarne un album nero di famiglia, un mosaico leggibile come “fascismo dal volto umano”. Umanissimo del resto è il protagonista, Edoardo Magni; la sua storia è raccontata con partecipazione in questo che non è un saggio, ma nemmeno assimilabile del tutto a un romanzo storico, perché l’autore sceglie una via intermedia, quella del diario postumo consegnato da un fascista eretico alla figlia, e da quest’ultima affidato a lui stesso. Così l’io narrante, Edoardo Magni, è sia immaginario che non, risponde a precisi dettagli storici ma nasce visibilmente da una rielaborazione condotta dallo stesso Pansa sui suoi personali ricordi di Casale Monferrato. Storia emblematica, quella di Edoardo Magni: figlio della borghesia agraria, traumatizzato dalla carneficina della Grande Guerra, intento a curarsi le ferite morali nell’agio della ricca tenuta paterna, simpatizzante del nascente fascismo ma non fino al punto di sporcarsi le mani, dongiovanni un po’ per noia e quasi controvoglia, sicché l’amore delle donne gli serve da antidoto alle miserie della politica italiana. E proprie le sue numerose fiamme, nel saggio-romanzo, diventano per lui ambasciatrici del mondo esterno, ognuna con il suo carico di dolore e di verità, spingendolo a scoprire il lato occulto del fascismo: quello degli idealisti (sia pure armati di manganello) e degli sconfitti, illusi fin quasi alla fine del regime di dover difendere un fascismo “pulito” caduto nelle mani dei traditori e degli arrivisti.
Del romanzo, comunque, Eia eia alalà possiede lo sviluppo drammatico, perché l’ultima delle amanti, ebrea, aprirà finalmente gli occhi al protagonista sulla verità brutale del regime di Mussolini: il razzismo e la complicità nella Shoah. Emancipandolo così dalla tabe ideologica , emotiva e familiare, che fino a quel momento l’aveva accompagnato.
Libero da ogni contingenza polemica, Giampaolo Pansa dispiega qui nel modo più convincente una limpida vena narrativa e la sua testimonianza, mai reticente, è arricchita da chiaroscuri e contraddizioni in cui traspare autentica vita vissuta.
Dario Fertilio