Il No al referendum sull’Alitalia non è un evento inaspettato, né tantomeno un rigurgito di massimalismo sindacale, è figlio legittimo di una situazione che si protrae da decenni
Il risultato del referendum sull’accettazione del piano di salvataggio di Alitalia è stato un sonoro no all’intesa già stipulata dai sindacati.
Sorprendenti non sono i risultati, ma il coro di manifestazioni di sorpresa da parte di tanti di fronte a un risultato già scritto nella storia dell’Alitalia. Perché è la fotografia di un atteggiamento, di un modo di essere che è proprio quello che ha portato Alitalia al fallimento: il guardare ai propri interessi particolari, la mancanza di qualsiasi programmazione, il credere che ogni situazione (o meglio privilegio) possa continuare in eterno. Un atteggiamento che ha coinvolto tutti: dai dipendenti ai politici, dagli imprenditori agli italiani tutti.
- I dipendenti che ritengono di essere al di fuori di ogni considerazione economica, di avere “il diritto a lavorare in serenità” (come ha dichiarato in un’intervista televisiva una hostess), di vivere ancora in un mondo di privilegi e di certezze quale quello degli anni ’70 e ’80 e che ritengono che, comunque, in qualche modo si salveranno
- I politici che non hanno smesso di utilizzarla come un mezzo elettorale, per attirare voti e consensi: dal primo progetto di fusione con KLM (boicottato perché rischiava di far uscire l’Alitalia dal giro delle partecipate), alla vendita alla Air France (respinta da Berlusconi perché più utile elettoralmente avere un “vettore italiano”), al fallimentare accordo con Etihad (per evitare un fallimento sotto elezioni). I manager che si sono succeduti a ritmo folle (cinque amministratori in cinque anni senza cavare un ragno dal buco e gli imprenditori della famosa “cordata tricolore” preoccupati solo di recuperare in qualche maniera i loro soldi, investiti in un’iniziativa in cui non credevano e che avevano abbracciato solo per compiacere il politico di turno).
- I cittadini italiani che dei destini dell’Alitalia si sono disinteressati sempre (quando mai si è sentito un dibattito serio sui suoi destini?)
Ed ora? C’è da scommettere che, rifiutata come aberrante e impraticabile l’unica ipotesi logica (il fallimento) si ricorrerà ai soliti aiuti di stato (il prestito ponte di 500 milioni già ritenuto insufficiente prima di cominciare) contrattati con la UE a caro prezzo (rinunciando a aiuti ad aziende sane) ipotizzando come “extrema” ratio la solita nazionalizzazione attraverso un mostro statalista e assistenzialista quale Trenitalia che ingloba Anas e Alitalia: una nuova Cassa del Mezzogiorno dei trasporti!
E nel frattempo che cosa penseranno le decine di migliaia di dipendenti che, con il fallimento delle loro ditte soffocate dalla burocrazia, dalle tasse e dalla stretta creditizia, hanno perso posto di lavoro, stipendio e spesso anche la liquidazione?
Offriremo anche a loro otto anni di cassa integrazione (come è già stato fatto con Alitalia), li assumeremo in qualche carrozzone di stato oppure li lasceremo senza stipendio e senza futuro perché loro non sono dell’Alitalia?
di Angelo Gazzaniga