La globalizzazione, che pur ha fatto crescere anche i paesi dell’ex “terzo mondo”, ha avuto come effetto collaterale quello di aumentare nell’occidente industrializzato le differenze tra ricchi e poveri. Ma, come il caso italiano dimostra, la crescita delle disuguaglianze tra i redditi non comporta necessariamente l’aggravamento delle iniquità sociali, a condizione che vengano tutelate le condizioni di vita delle fasce di popolazione disagiata. La questione di fondo rimane che l’economia di mercato non è una pecora da uccidere ma da “tosare” in maniera intelligente. La ricerca dei correttivi alle distorsioni deve partire però dalla capacità di creare sviluppo perché senza crescita non c’è nulla da dividere.
Oggi in Italia i numeri (ingannevoli) dicono che cresce la quantità dei soggetti occupati, ma in realtà sono diminuite le ore lavorate, seppur distribuite su una platea di lavoratori più estesa. È uno scenario in cui aumentano coloro che lavorano ma si riduce la retribuzione media. Si tace sul numero degli “occupati statistici” in cassa integrazione mentre è del tutto scomparsa una politica di reindustrializzazione delle aree di crisi. E dire che alla fine degli anni Settanta la (rimpianta) Gepi aveva ottenuto risultati che, paragonati a quelli di oggi, appaiono miracolosi. Sembra materializzarsi un nuovo modus vivendi: lavorare meno, lavorare tutti e, soprattutto, guadagnare meno. Una sorte di decrescita felice, sospinta da forme di ambientalismo fondamentalista e da un radicalismo politico che promette ciò che non potrà mantenere.
D’altra parte i lavori poveri, per loro natura precari, non possono essere svolti vita natural durante e non sono una prospettiva ragionevole per le nuove leve del lavoro. I correttivi possono essere anche di natura assistenziale ma, se ci si limita a questo, nel medio lungo termine non cambia nulla. Ogni anno il nostro paese è alle prese con una legge di bilancio che deve riportare il deficit entro limiti tollerabili mentre l’enorme spesa pubblica non viene mai seriamente intaccata. Nello stesso tempo si invocano provvedimenti “shock”, come gli investimenti pubblici per le infrastrutture e per le nuove tecnologie , che per altro non si possono finanziare adeguatamente. Le manovre di bilancio, in assenza di una efficace strategia di risanamento e di sviluppo, finiscono per adottare modeste e contraddittorie misure fiscali di aggiustamento a carico dei ceti medi e delle imprese.
D’altra parte, siamo divenuti una “società signorile di massa”, in cui, a differenza di altri paesi come la Germania, la ricchezza patrimoniale privata, finanziaria e immobiliare, supera di gran lunga il debito pubblico: oltre 10.000 miliardi contro 2.444 di debito pubblico (dati gennaio 2020). Il tendenziale aumento della pressione fiscale, in attesa che il contrasto all’evasione produca i risultati attesi, è accettato sia pur a malincuore da coloro che pagano effettivamente imposte e tasse di ogni specie perché considerato il male minore di fronte al taglio del welfare o ad una ripresa della speculazione sui nostri titoli di Stato. Ma quanti cittadini pagano davvero le tasse, e quanti, pur non essendo evasori, godono almeno sulle imposte dirette di un prelievo fiscale assai modesto o addirittura inesistente? I dati ci dicono che il 12,28% dei contribuenti paga il 57,8% di tutto l’Irpef e il 61% paga il 13,1%. È realistico (anche se augurabile) sostenere che ogni anno si potrebbero concretamente recuperare parecchie decine di miliardi di euro oggi sottratti all’erario?
In assenza di una forte crescita economica, mantenendo gli attuali livelli assistenziali e previdenziali complessivi, per far tornare i conti si potrà continuare per qualche anno ad intaccare la ricchezza privata degli italiani, a sua volta alimentata anche dal disavanzo pubblico. Ma questa partita di giro non sarà eterna e quando la festa sarà finita il paese finirà in ginocchio, assistenza e previdenza saranno messe in discussione e le conseguenze politiche potrebbero essere assai gravi. Tanto più in un’Europa che rischia l’immobilismo e l’irrilevanza. Per questo senza una netta inversione di tendenza il conto del malgoverno sarà pagato dalle future generazioni.
Gli obiettivi della crescita e del risanamento del debito pubblico si legano l’un l’altro e gli obiettivi strategici devono essere chiari. In primo luogo, un forte recupero di produttività: dal 1995 al 2018 la produttività del lavoro è cresciuta mediamente dello 0,4% annuo ma nella media europea del 1,9%, la produttività del capitale è crollata dello 0,7% e quella complessiva ha avuto una crescita pari a zero. Servono investimenti adeguati, efficaci politiche formative e modelli contrattuali sempre più vicini alle singole imprese con premi di risultato che valorizzino la professionalità e la responsabilità. Questa impostazione deve valere anche per settori come la pubblica amministrazione, la giustizia e la scuola per cui è il momento di abbandonare i falsi miti dell’egualitarismo e riconoscere il merito e la responsabilità.
La premessa per combattere le disuguaglianze e ripristinare “l’ascensore sociale” è in primo luogo quella di garantire a tutti le stesse condizioni di partenza e le stesse opportunità, non allargando misure di assistenzialismo generalizzato come il reddito di cittadinanza o quota 100. Semmai sarebbe opportuno riflettere su una maggiore selettività delle misure di welfare.
Tocca in primo luogo alla politica compiere le scelte necessarie. Ma è compatibile il ritorno ad una legge elettorale proporzionale con la necessità che governi e maggioranze parlamentari assumano, sia pur nella loro opportuna gradualità, scelte realisticamente impopolari? Scelte coraggiose sarebbero oggettivamente difficili se tornasse il diritto di veto che caratterizza le maggioranze composite. Solo un sistema politico maggioritario, che ha dato ottimi risultati nelle regioni e nei comuni, può garantire un “governo delle riforme” che abbia la forza di attuare un programma sul quale verrà poi giudicato dai cittadini.
(Fondazione Kuliscioff)
di Walter Galbusera