“Il mio più grande amore è stata una danese”
Indro Montanelli a Hanne Winslow, moglie di Piero Ottone
“Come si chiamava?”
Hanne
“Non mi ricordo”
Indro Montanelli
“L’artista è il creatore di cose belle. Rivelare l’arte e nascondere l’artista è il fine dell’arte”
Oscar Wilde, prefazione de Il ritratto di Dorian Gray
La psichiatra di Pisa Liliana Dell’Osso firma così la sua dichiarazione di guerra al predecessore Giovanni Battista Cassano, che curò – tra gli altri suoi pazienti – Indro Montanelli (non ho mai capito se gli prescrivesse anche il litio, e forse non lo saprò mai), e che era afflitto da disturbo bipolare II: “… Il bipolare è, come lo schizofrenico, incapace di intrattenere un rapporto autentico con il reale da cui ne resta profondamente separato mentre sembra totalmente immerso nel contesto in cui si trova…
C’è stato un momento, in Italia, negli anni Novanta, in cui gli psichiatri, e i media al loro seguito, hanno sostenuto la presenza quasi obbligatoria del disturbo bipolare con il genio.
E’ un’ipotesi falsa. Il bipolarismo, nelle fasi up, aumenta certamente l’energia, ma a prezzo di una grave disorganizzazione attentivo-cognitiva, quando non di una perdita del rapporto con il reale…” (L’altra Marilyn, ndr). Un minus dell’essere non da poco; di contro, il professor Giovanni Battista Cassano osservava invece che: “Si può pensare che il bipolare esperimenti una gamma così vasta di emozioni – passando dal tormento e dall’introspezione sottile della fase maniacale – che la sua sensibilità ne risulta affinata, la varietà aumentata, l’intensità delle percezioni profondamente acuita. Quando siffatte caratteristiche occorrono in una persona dotata anche di ingegno e di doti espressive artistiche, ecco allora il più facile prodursi dell’opera d’arte” (“E liberaci dal male oscuro”, ndr). Come già scritto nel mio saggio “Ottone contro Montanelli: il razionale contro l’artista”, il secondo avvertiva il pericolo incombente – nella sua monodirezionalità vincente da “pensiero bugiardo” in contrapposizione al ragionamento – che Ottone gli togliesse la maschera, ferendone il narcisismo intellettuale a morte.
E per questo motivo Indro cominciò a fargli la guerra, anche con infinite bassezze e doppiogiochismi che sono stati interamente ricostruiti nel libro Il caso Mattei – Le prove dell’omicidio del Presidente dell’Eni edito da Chiarelettere a firma del sostituto procuratore generale del Tribunale di Milano Vincenzo Calia, fino a mettere la P2 di Licio Gelli contro Ottone (sic!); Indro non era capace di ragionare, eppure aveva al proprio arco una fantasia illimitata che certo a Ottone (“Sei troppo razionale, Piero”, gli disse una volta Carlo Caracciolo), mancava nel suo impasto razionalistico tra Cartesio e Rasputin che forse irritava anche la sensibilità di Enzo Bettiza (un po’ artista anche Enzo, ma intellettualmente più evoluto di Montanelli). E pertanto, lo iato tra Indro e Piero era inevitabile nella drammaticità in cui si è consumato.
Il fondatore de “Il Giornale” si trovò nei guai, in quell’autunno terribile del 1973, e rischiò di fare la fine di un samurai nel deserto se Silvio – “Meno male che Silvio c’è”! – ed Eugenio Cefis a corrente alternata, non lo avessero psicologicamente e finanziariamente salvato con i soldi uno della Fininvest, l’altro della Montedison.
Orbene, così l’Ottone tutto Ragione e niente arte – ma si potrebbe aggiungere, oh potenze celesti della Ratio – smascherò il fragile e forte Indro nel libro già citato Preghiera o bordello – Storia, personaggi, fatti e misfatti del giornalismo italiano; una sola precisazione s’impone prima di citarlo: esiste un nesso di causalità tra il “pensiero bugiardo” del Montanelli istintuale mascherato da intellettuale che non era ma che fingeva di essere e il suo coinvolgimento nella campagna a mezzo stampa coordinata occultamente dal vero fondatore della P2 Eugenio Cefis contro Enrico Mattei, poi morto in un attentato il 27 ottobre 1962: perché Montanelli non era capace di stabilire un rapporto autentico con la verità arrivando a delinquere, nei suoi “effetti speciali” alla Coco Chanel: una “folla di frottole” lungo il suo intero percorso giornalistico. Valga il vero:
“… Il taglio di questo giornalismo (di Montanelli, ndr) era squisitamente letterario. Di un viaggio a Praga di Indro Montanelli, nel 1947, la cosa migliore fu l’elzeviro sul “russo rosso”, cioè su un russo sovietico invitato a colazione da un’aristocratica decaduta. Gli altri invitati, e lo stesso Indro, si aspettano di veder comparire un comunista rozzo e indottrinato; il russo si rivela invece raffinato, un po’ snob, buon conoscitore dei vini di Borgogna e delle migliori marche di whisky scozzese, amante della bella vita; gli altri ospiti, titubanti a tutta prima, a poco a poco si fanno coraggio, e con euforia raccontano di essere stati proprietari terrieri, di essere andati a caccia col principe tale e col conte tal altro, di avere avuto, insomma, un bel passato di gaudenti reazionari.
Il racconto è evidentemente immaginario: la colazione, è lecito supporlo, non è mai avvenuta, o è avvenuta in circostanze diverse. Ma in quei giorni confusi, quando la guerra vera era finita da poco e la guerra fredda non era ancora cominciata, Montanelli si rendeva conto, intuitivamente che la Russia era diversa da quella che i pavidi borghesi di casa se l’immaginavano; era una grande potenza imperialistica piuttosto che un’entità ideologica; e lui trasmetteva il messaggio a modo suo, attraverso un racconto condotto con l’abilità del buon narratore, dosando a poco a poco il senso di sorpresa di fronte al russo, il graduale abbandono dei timori, il ritrovamento di una comune propensione per i piaceri della vita; si prendeva anche giuoco del mimetismo di una certa borghesia italiana, che si vergognava del suo passato. Manca, in questo giornalismo, ogni interesse alle condizioni politiche ed economiche di un paese: possiamo parlare, tutt’al più, di una verità poetica. Una verità che si ritrova in una delle serie più riuscite di Indro Montanelli, quella degli “incontri”. A uno a uno, i personaggi dominanti di quegli anni furono da lui descritti in elzeviri di terza pagina: De Gasperi, Sforza, Nenni, Missiroli… Abbiamo già fatto cenno dell’incontro con Missiroli, quando questi scrive un articolo nel Resto del Carlino per preparare i bolognesi alla temuta invasione dopo Caporetto, tesse l’elogio della cultura tedesca, ed è improvvisamente colto dal timore di quel che gli succederà quando torneranno “gli altri”, cioè gli italiani. E’ ovvio che l’episodio non accadde mai; o non accadde nel modo descritto nel racconto.
Altro esempio: Montanelli racconta che Sforza, ministro degli Esteri, lo riceve; e annota scrupolosamente su un foglietto ciò che Montanelli gli dice. Poi Indro esce dalla stanza e vede, attraverso lo spiraglio della porta, che Sforza appallottola il foglietto e lo getta nel cestino. Sarà andata proprio così? Si stenta a crederlo. Verità poetica, piuttosto: gli episodi sono inventati, ma colgono, o sperano di cogliere, le qualità intime del personaggio, le paure di Missiroli, le adulazioni di Sforza…”.
Non è incomprensibile perché, dal 1998, Indro avesse interrotto i rapporti d’amicizia con mio nonno che pure erano sostanzialmente ripresi poco tempo dopo il licenziamento dal “Corsera”. Troppa luce rischia di accecare. Meglio accontentarsi della superficie, senza andare in profondità… Sempre da “Preghiera o bordello”: “… In tutta la carriera ha dimostrato di essere, oltre che giornalista, uno scrittore, con la sensibilità dell’artista; di fronte a una situazione o a un personaggio ha sempre avuto la tendenza a scrivere un racconto, un bel racconto secondo la tradizione toscana, acuto e ironico, colorito e brillante, piuttosto che un’analisi ragionata. Ogni giornalista fa uso delle sue armi, delle sue doti per cercare di capire la situazione che vuol descrivere, e c’è chi è armato di una solida cultura, chi di una coerente visione del mondo, ma Montanelli ha piuttosto fatto conto sull’intuizione, che appunto è la dote dell’artista; indovinava o non indovinava, ma di fronte a un personaggio, a una guerra, a una sommossa, si è affidato al fiuto, e ha poi riferito quel che aveva intuito in una bella narrazione, avvincente come un romanzo, scritta in una prosa di classe, scorrevole, elegante, incisiva. In un giornale americano non avrebbe fatto carriera; avrebbe invece avuto successo in una rivista come il New Yorker, vecchia maniera, che affidava i reportage a scrittori come Truman Capote. Non tutto quel che Indro scrive è vero; ma nei suoi articoli c’è la verità dell’intuizione artistica. “E’ più vero”, questa è una sua frase ricorrente, “che se fosse vero.” Non siamo forse la patria di Pirandello?…
Quando Alfio Russo andò a dirigere il Corriere, Indro era già un personaggio; aveva scritto romanzi, racconti, commedie. Con Russo aveva ottimi rapporti di amicizia, aveva abitato in casa sua quando i viaggi di inviato lo avevano portato nella città in cui Russo aveva casa; Indro aveva del resto rapporti ottimi con tutti i colleghi, tranne poche eccezioni, perché era gentile, affabile, buono d’animo. Era anche un compagno piacevole, di buon umore, pronto a scherzare, quando non era colto dalle crisi ricorrenti di depressione, che lo facevano soffrire in modo atroce…
Gli artisti sono ingenui, talvolta; sono egocentrici, sempre; infine sono suscettibili. Indro era tutte queste cose, e come si inteneriva di riconoscenza quando qualcuno mostrava di apprezzare il suo lavoro, così avvampava di sdegno se sospettava di essere disprezzato…”.
Il narcisismo è l’arcano del genio: Marco Massa dixit.
C’è da giurare che se Indro fosse andato in analisi freudianamente – “Non ho mai fatto quella bischerata della psicanalisi” – lo avrebbe scoperto, perdendo il suo èlan vital fondato sulla manipolazione menzognera tout court della realtà; egli non poteva che falsificare la realtà, – ma razionalmente non sapeva che era così! –, producendo effetti speciali che lo rendevano felice e al contempo miglioravano l’umore dei suoi lettori, fan e spettatori: poiché Indro si divideva tra le pieces teatrali e il battage degli articoli come un Travaglio ante-litteram.
Sono sicurissimo che l’accademica Liliana Dell’Osso, nel suo cinismo ad alto livello che contrappone l’eteronomia del soggetto all’autos nomos, sarebbe d’accordo con chi scrive: Indro aveva i difetti delle sue stesse qualità.
Nel suo prezioso e documentatissimo libro Il caso Mattei – Le prove dell’omicidio del Presidente dell’Eni – Dopo bugie, depistaggi e manipolazioni della verità, il magistrato Vincenzo Calia denuncia le fake news prodotte da Montanelli nella sua campagna di stampa contro Enrico Mattei.
Fu una delle pagine più nere nella storia del giornalismo nostrano, dove Indro eguagliava “l’imbroglio giornalistico” come metodo di lavoro di Benito Mussolini (ipomaniacali entrambi).
Nel capitolo “Montanelli e i “pennivendoli”, Calia osserva alla voce Montanelli versus Mattei:
“Gli attacchi più aspri Mattei li ricevette sul “Corriere della Sera” da Indro Montanelli nel 1962, tre mesi prima dell’attentato. Il cronista toscano pubblicò una lunga intervista, si tratta di cinque voluminosi articoli apparsi in terza pagina dal 13 al 17 luglio di quell’anno, in cui si scagliava contro “i poteri che sconcertano l’opinione pubblica”. Montanelli entrava a gamba tesa nel settore dell’oro nero, che non era il suo, e nonostante solo un anno prima avesse ammesso sul “Corriere della Sera”, in un articolo in cui stilava un profilo del presidente dell’Eni, di “non voler discutere la natura economica e politica del fenomeno Mattei” poiché “non ne so abbastanza”. Poi, evidentemente, cambiò idea e, a partire dal pezzo intitolato In mano di Mattei le chiavi di una grande cassaforte dell’Italia del 13 luglio 1962, decise di denunciare il monopolio che Mattei era riuscito a farsi assicurare dal governo. Il 14 luglio, nel pezzo Dal petrolio al metano, Montanelli ricostruì la “corsa alla frontiera” di Mattei che ha creduto o “finto di crederci” per colpire la fantasia degli italiani” nella favola del petrolio nella val padana, alimentando i “complessi cubani” contro gli americani…”.
Osservava Calia: “… Che un giornalista abbia un’opinione, che piaccia o no, è non solo legittimo ma doveroso ed essenziale alla vita democratica.
Lecito è chiedersi in questo caso perché Montanelli si sia sistematicamente scagliato, spesso con dati imprecisi e notizie false alla mano, contro Mattei. Secondo Giorgio Bocca, che è stato collega del giornalista di Fucecchio a “Il Giorno”, “quella campagna di stampa contro l’Eni era stata pilotata: si sapeva che la destra della Dc vedeva in Mattei un pericoloso sostenitore del centro-sinistra…”.
Ma c’è un’altra ragione del perché il redattore più popolare di via Solferino falsificava la realtà: era bipolare. “Perché e su quali basi Montanelli arriva a lodare l’operato di Cefis, a farne il ritratto di un cavaliere senza ombra, quando di ombre ce n’era ben più d’una? E’, quantomeno, lecito chiederselo”.
E’ lecito rispondere, caro Calia: perché era bipolare, ab origine di tutto.
Ps – Ottone era un potenziale killer per Montanelli, incapace di stabilire un rapporto autentico con il reale a causa delle sue tare fisiogene da temperamento ciclotimico dove il falso e l’autentico risultavano continuamente commisti e terrorizzato dal fatto che il primo come suo direttore responsabile lo mettesse di fronte a questa verità rimossa che Indro negava a se stesso, mentendo fino alla fine.
Al limite del precipizio?
Il successo è l’altra faccia del fallimento tra Lux e Tenebra.
Sempre.
E non smette d’illuminarci d’immenso.
di Alexander Bush