Perché l’aborto non è un diritto

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Per un vero liberale non esiste né il diritto all’aborto né il divieto assoluto di abortire, ma una zona grigia in cui muoversi con cautela e buon senso.

Se quella materia vivente, che somiglia a un mostriciattolo con fattezze umane, giunta al terzo mese dal concepimento, si ribella all’isterosuttore e si sforza con penosa fatica di non esserne risucchiata, non si distingue da una cisti seborroica o da un’appendice da asportare subito per non farla degenerare in peritonite, come credeva la radicale Adele Faccio (e come forse crede Emma Bonino), il problema non si pone. L’aborto è un ascesso dentario che la mutua può benissimo ‘passare’ (forse l’esempio è mal scelto giacché le cure medico-dentarie sono a carico del paziente, ma il discorso è chiaro). Mettiamo, però, che per alcuni le cose non stiano proprio così, ritenendo che fin dall’inizio del concepimento ci si trovi dinanzi a una persona: è difficile crederlo, sulla base dei testi di medicina, ma questa è la posizione dei cattolici che si richiamano al principio della sacralità della vita, indisponibile in quanto dono di Dio. Si tratta di due stili di pensiero opposti e affini. Per i laicisti—spesso atei razionalisti—il feto è nulla, per i credenti il feto è già, in quanto persona, titolare di diritti: per i primi, liberarsene è eticamente irrilevante, per i secondi è un reato (e si potrebbe aggiungere: una colpa morale e un peccato).
Negli uni e negli altri la filosofia liberale – come il caffè nella tazzina di Amalia, la moglie di Luca nell’indimenticabile tragicommedia di Eduardo De Filippo, “Natale in casa Cupiello”, “non ha mai praticato”. Il liberalismo, infatti, si nutre della consapevolezza delle zone grigie dell’esistenza, aborre l’aut-aut e il consequenziarismo cartesiano (che, nella sua traduzione politica, diventa giacobinismo e bolscevismo), sa che valori e disvalori, positivo e negativo, giusto e ingiusto non sono due campi separati da altissime palizzate. I teorici dello stato liberale furono il borghese John Locke nel Seicento e l’aristocratico Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède e di Montesquieu, nel Settecento, ma i fondamenti dello spirito liberale si trovano nell’aristocratico (per noblesse de robe) Michel Eyquem de Montaigne, nel Cinquecento, e nel figlio dell’avvocato scozzese, David Hume, nel secolo dei Lumi. E’ negli Essais la sapienza riposta dell’Occidente: l’aureo principio, sotteso alla domanda que sais je?, ci porta alla rinuncia a chiederci quale sia lo status ontologico dell’embrione ovvero se sia irrilevante come un foruncolo o se sia, almeno in potenza, un soggetto giuridico.
Gli uomini, insegna le bon David, con la ragione possono solo registrare le relazioni tra le cose, ma nel “dato di fatto” non troveranno mai il sigillo di un valore o di un disvalore. “II vizio – si legge nel Trattato sullla natura umana – sfuggirà completamente fino a quando considerate l’oggetto. Non potrete mai scoprirlo fino a che non volgerete la vostra riflessione al vostro cuore in cui troverete che è sorto un sentimento di disapprovazione nei confronti di questa azione. Ecco allora un dato di fatto, ma oggetto del sentimento e non della ragione. Esso si trova in voi, non nell’oggetto. Così, quando dichiarate viziosa un’azione o un carattere, non intendete dire niente altro che, data la costituzione della vostra natura, voi provate un senso o un sentimento di biasimo nel contemplarli”.
Importa davvero stabilire se è lecito sopprimere un feto, confortati da ciò che ce ne dice la scienza, quando avvertiamo un problema morale nel procedere alla sua espulsione dal corpo di chi intende liberarsene? Se data la costituzione della nostra natura, proviamo “un senso o un sentimento” di profondo disagio di fronte all’aborto, siamo davvero tenuti a giustificarci davanti allo scientista, che ci spiega perché entro i tre mesi non si può parlare assolutamente di un esserino senziente e pensante simile a noi?
In base a queste considerazioni, un liberale dovrebbe battersi per la depenalizzazione della pratica abortiva per le donne che ragionano come le femministe radicali, ma insieme, opporsi alla trasformazione della depenalizzazione in un diritto garantito dallo Stato, rifiutando di conseguenza l’argomento, spesso addotto, che concedere un diritto non significa essere obbligati a usufruirne. (Un argomento assai poco convincente: sarebbe come riconoscere il diritto a tormentare un animale con esonero dal dovere di farlo).
Un diritto ‘preso sul serio’, infatti, comporta che tutti i cittadini debbono contribuire, con il prelievo fiscale, alle spese ospedaliere richieste dall’ utilizzo dell’isterosuttore, anche quelli portati dalla loro particolare sensibilità morale a non vedere differenze tra l’infanticidio commissionato da Erode e la pratica consentita dalla legge 194 (o meglio dall’interpretazione lassista e permissiva che si è data di tale legge, in sé del tutto ragionevole).
Un liberale, proprio perché rifiuta, la logica del “tutto o niente”, può anche ammettere che in certi casi tragici – lo stupro, le gravissime malformazioni del nascituro, le precarissime condizioni fisiche della madre eccetera – si possa ricorrere alle strutture pubbliche per abortire, purché tali casi vengano sottoposti a commissioni di esperti seri (e non ideologicamente prevenuti in un senso o nell’altro), e si possa ragionevolmente contare sulla disposizione dei sostenitori non fondamentalisti della sacralità della vita a “chiudere un occhio”. Quello che è intollerabile, invece, ma nel nostro paese si tollera, è che una donna oggi possa chiedere a una struttura pubblica di abortire senza neppure spiegare le ragioni per le quali intende farlo (sarebbe un’intollerabile intromissione nella sua privacy!). In tal modo, il valore di una vita (indisponibile o meno che sia, si tratti di una persona, di una semipersona, o semplicemente di qualcosa che vive e che, come tutto il vivente, come le piante, come gli animali, meriterebbe di venir protetto) conta assai meno, ad esempio, della volontà di una ragazza di non far sapere ai genitori l’infortunio in cui è incorsa e della sua indisponibilità a portare a compimento la gravidanza, anche se le si garantisce l’adozione del nascituro.
Oggi che il sacrificio di un animale non ci sembra lecito se serve solo per un prodotto cosmetico, il mancato uso del profilattico (che ridurrebbe del 30% il piacere sessuale) non ci pare in alcun modo sanzionabile. Dire a una ragazzina: “sei stata incauta e ora te ne assumi le conseguenze!”, è dar prova di paternalismo autoritario, di stato etico eccetera. Ormai i desideri sono diventati ‘diritti’ e ogni forma di ‘repressione’ si configura come un vulnus inferto alla libertà e alla dignità dell’individuo. Se questo è liberalismo!, si sarebbe tentati di dire, parafrasando il titolo di una delle testimonianze più dolenti del 900.

di Dino Cofrancesco

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Dino Cofrencesco
Dino Cofrancesco è uno dei più importanti intellettuali italiani nel campo della storia delle dottrine politiche e della filosofia. E' autore di innumerevoli saggi e tra i fondatori dei Comitati per le Libertà. Allergico all'ideologia dell'impegno, agli "intellettuali militanti", ai profeti e ai salvatori del mondo, ai mistici dell'antifascismo e dell'anticomunismo, ha sempre visto nel "lavoro intellettuale" una professione come un'altra, da esercitarsi con umiltà e, nella misura del possibile, "senza prendere partito". Per questo continua, oggi più che mai, a ritenere Raymond Aron, Isaiah Berlin e Max Weber gli autori più formativi del '900; per questo, al tempo dell'Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, si schierò, senza esitazione, dalla parte della storiografia revisionista, senza timore di venir accusato di filofascismo.

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