E’ proprio necessario fare in fretta la legge elettorale?
Fatto trenta, si può fare trentuno. Il rinvio a settembre della discussione parlamentare sulla legge elettorale non è affatto la fine del mondo. Le Camere, da anni ripetutamente messe in mora dalla Corte Costituzionale, hanno motivo di pensarci ancora e di decidere, libere da quella calura estiva che Renzi voleva fosse vigilia di elezioni. In un paese serio la legge elettorale non è un cencio usa e getta, acquistato a prezzi di saldo. È il pilastro del rapporto democratico tra cittadini e istituzioni. Va pensata non per chi è al potere e magari ha sgovernato, ma per formare la classe dirigente in prospettiva pluridecennale (esattamente ciò che occorre in Italia per restituire dignità alla Pubblica Istruzione: demolita per decenni, essa ne richiederà altrettanti per tornare qual era).
Nel frattempo vi è più tempo per prendere atto delle novità emerse dalle amministrative del 18-25 giugno. In primo luogo, a differenza di quanto sostengono tanti commentatori di modesta formazione storica, l’Italia non è affatto tripolare. Gli elettori percepiscono ancora nettamente la differenza tra “Destra” (liberaldemocratica, moderata, con sano innesto di difesa degli interessi patrii) e “Sinistra” (statalista, quintomondista, nostalgica del “socialismo reale”), mentre che cosa siano e che cosa davvero vogliano i “grillini” era e rimane un mistero poco gaudioso. In secondo luogo è emerso che il centro-destra vince dove si presenta unito e con candidati credibili. Dove il suo elettorato è fiacco, rassegnato, più corrivo alle merende fuori porta che alle urne, esso perde anche se ha la vittoria in tasca. Dall’insieme delle amministrative è risultata ancora più chiara l’importanza della coalizione e/o federazione tra forze simili o comunque convergenti su alcuni punti politici cardinali, come quella proposta nel 1952 per consolidare la maggioranza “centrista a guida democristiana (socialdemocratici, repubblicani…): un ventaglio di correnti tenute insieme da quel tanto di “senso dello Stato” che i loro dirigenti avevano ereditato dall’Italia nella quale si erano formati. Erano élites a quotidiano contatto con la nazione.
Solo una legge elettorale seria restituirà ai cittadini la fiducia che l’esercizio del diritto di voto trova rispondenza nel rispetto della loro volontà, liberandoli dal sospetto (spesso fondato) che “tanto l’uno vale l’altro”: rassegnato preludio all’avvento di regimi autoritari o totalitari. Gli elettori hanno bisogno di vedere che il loro voto pesa, come accadde nei primi settant’anni dell’Italia unita e per alcuni decenni di questo dopoguerra, erroneamente liquidati come “Italietta” e “Prima repubblica” (quasi l’attuale sia migliore dell’una e dell’altra). Una legge elettorale con equilibrato premio maggioritario è il volano per quella “Conquista degli astenuti” che Renato Mannheimer e Giacomo Sani analizzarono in un saggio edito da il Mulino quasi vent’anni orsono per rispondere alla domanda “Perché un italiano su tre non va a votare”: quesito ancora più assillante oggi, con l’astensionismo in crescita preoccupante, segno allarmante del declino delle istituzioni.
di Aldo A. Mola