Perché noi dei Comitati siamo per il presidenzialismo e per il sistema maggioritario

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“per Albatros un estratto dell’intervento sulla legge elettorale tenuto da Dario Fertilio al Convegno organizzato a Cuneo dalla Fondazione Giolitti sul tema delle leggi elettorali”.


Secondo una definizione corrente, i sistemi elettorali sarebbero noiosi: un argomento arido, una specialità per addetti ai lavori; se non addirittura una specie di vizio inconfessabile coltivato da una confraternita di studiosi. Ma si tratta di un falso mito.
Falso come quello secondo il quale essi dovrebbero corrispondere allo “spirito del tempo”, interpretando o addirittura adattandosi ad esso.
In realtà, basta cogliere lo spirito che anima i sistemi elettorali – al di là della loro oggettiva complessità – per rendersi conto che essi riguardano la nostra esistenza quotidiana, e per così dire costituiscono la carne e il sangue della stessa democrazia. Del resto, come potremmo permetterci la vita che viviamo, con le sue prerogative e i vantaggi che ci offre, se un sistema di libertà e di diritti garantito dalla democrazia non ci accompagnasse giorno per giorno e ora per ora?
Quanto allo “Zeitgeist” che bisognerebbe assecondare, basta una veloce carrellata sul passato politico dell’Italia per rendersi conto dell’errore: là dove, per diversi motivi, si è tentato di “adattarsi ai tempi”, si è poi sempre andati incontro ad effetti non voluti, e spesso a vere e proprie catastrofi, secondo il principio hayekiano delle “conseguenze inintenzionali” legate alle azioni umane.
Ecco dunque la grande riforma elettorale giolittiana del 1912, che introdusse il suffragio universale maschile: certamente si trattava di un modo per adeguare il sistema italiano a quello degli altri grandi Stati europei, favorendo insieme con la partecipazione popolare più vasta anche una (allora auspicabile) politica estera di potenza. In effetti, le elezioni dell’anno successivo, che mantenevano il sistema uninominale a doppio turno, garantirono un successo alle forze liberali; ma in seguito l’allargamento appena realizzato della base elettorale non portò affatto ad una maggiore efficienza del Parlamento: nel 1915 esso votò al buio al fiducia al governo interventista Salandra-Sonnino e soprattutto nel 1919, su pressione dei due grandi partiti di massa, il popolare e il socialista, si piegò all’adozione del sistema proporzionale. Conseguenza: sei governi in tre anni (fra il 1919 e il 1923), una cronica instabilità che spianò la strada alla soluzione autoritaria fascista.
In quel momento, tale soluzione apparve a larga parte dell’opinione pubblica, non soltanto borghese, il male minore rispetto al dilagare della minaccia marxista e al caos. Ecco che in seguito venne allora adottata un’altra legge pronta ad esprimere lo “spirito del tempo”: la legge Acerbo, di impianto maggioritario e con un premio di maggioranza che avrebbe consentito a Mussolini di governare con una maggioranza assoluta. Conseguenza non intenzionale: il consolidarsi della dittatura. Oggi sembra difficile crederlo, ma per anni la maggioranza degli italiani continuò a credere nella bontà del fascismo al potere: e proprio per andare incontro a quella persistente popolarità si varò la riforma elettorale del 1928, con un collegio unico nazionale e la primazia del Gran Consiglio del regime. Conseguenza non intenzionale per tutti: la chiusura definitiva di ogni spazio di libertà politica e il consolidamento definitivo della dittatura.
Dopo la sconfitta militare e il crollo del fascismo, si invocò naturalmente un ritorno alla democrazia rappresentativa: lo “spirito del tempo” fece sì che si adottasse un sistema proporzionale in grado di rappresentare tutte le ideologie e tutti gli interessi politici. Ancora una conseguenza non intenzionale: si ripresentò subito la stessa situazione di precarietà nell’esecutivo del prefascismo; questa per fortuna non portò a una nuova dittatura, ma a un valzer interminabile di governi e governicchi, spesso di transizione e balneari, della durata media di otto-dieci mesi, tali da rendere l’Italia agli occhi di tutti il Paese simbolo delle crisi e della provvisorietà (oltre che naturalmente del deficit schiacciante, dal quale siamo ancora gravati). Quando più tardi si cercò di porvi rimedio, con l’introduzione della legge maggioritaria (denominata dagli avversari “legge truffa”) si scatenò una battaglia nelle piazze e, sia pure per poco, il premio che avrebbe consentito di conquistare una maggioranza solida alla Dc e ai suoi alleati in Parlamento non scattò. Incominciò così l’interminabile era partitocratica della Prima Repubblica.
Tutto cambiò – ed è storia recente – con Tangentopoli: la ventata di rinnovamento portò ad adottare nel 1993 il cosiddetto “Mattarellum”, cioè un sistema al 75 per cento maggioritario di collegio e per il resto proporzionale: un ibrido che, nell’insieme, funzionò, ma le cui conseguenze non previste furono una serie di trucchi (liste civetta, desistenze) e l’esasperazione di un bipolarismo astioso e isterico, incapace di reciproca legittimazione fra i due poli, lontano mille miglia, sulle grandi questioni, dall’adottare uno spirito bipartisan.
Proprio di fronte alle proteste, e anche per venire incontro alla rinascente partitocrazia, nel 2006 venne studiato il cosiddetto “Porcellum”, un sistema proporzionale con premio di maggioranza e soglia di sbarramento, di per sé in grado di garantire l’alternanza ma fatalmente inquinato dalle ingerenze dei partiti: il peggiore effetto non voluto fu quello di creare un Parlamento di “nominati” dall’alto, attraverso il sistema delle liste bloccate.
Siamo dunque in grado ora di rispondere alla domanda: le leggi elettorali devono corrispondere allo spirito del tempo? Ebbene, gli esempi precedenti mostrano che le varie riforme adottate con questo spirito fallirono regolarmente.
Concludendo, la strada per migliorare la nostra democrazia elettorale non è quella di accettare, o arrendersi, allo “spirito dei tempi”.
Si è visto che non sono una soluzione accettabile nemmeno il proporzionalismo (il sistema peggiore, alla luce delle esperienze storiche non solo italiane) e tanto meno il voto di preferenza, strumento di corruzione, lobbismo, accordi sottobanco, spesso anche di controllo mafioso. Arbitrario in sé si è rivelato nel tempo anche il premio di maggioranza, perché esso viene contestato fatalmente da tutti coloro che ne vengono esclusi; e lo stesso vale per la soglia di sbarramento, la quale anziché limitare il principio della proporzionalità tira una riga aritmetica (di solito provvisoria) a separare i partiti “sommersi” dai “salvati”. Ancora: pessimo fra tutti i sistemi è quello del collegio unico nazionale, perché favorisce il controllo del voto al livello centrale; molto imperfetto pure quello ibrido (che infatti nel caso del “Mattarellum” ha portato al bipolarismo imperfetto); negativo quello del “Porcellum” con la designazione partitica dei candidati.
Tutti i sistemi e le tecniche appena elencati comportano insomma difetti gravi, e in qualche caso possono rivelarsi potenzialmente fatali per la democrazia. Che fare allora?
Occorre, anzitutto, preparare e far maturare una cultura politica che non favorisca gli estremismi e punti:

  • alla semplificazione intesa come conquista morale, capace cioè di far comprendere a tutti, senza differenza di età, sesso e istruzione, il funzionamento del meccanismo elettorale. In questo senso il sistema migliore, cui tendere, è il maggioritario secco di collegio: il primo vince, gli altri a casa (“the first past the post”). E i collegi devono essere piccoli, in modo da consentire un rapporto diretto fra il candidato e i suoi elettori;
  • all’efficienza e alla separazione dei poteri come garanzia del cittadino. Un metodo che deve avere come caposaldo il presidenzialismo (un Capo dello Stato eletto dal popolo in cui esecutivo e legislativo siano separati e i membri del governo non facciano parte del Parlamento, ed inoltre esista uno statuto speciale dell’opposizione;
  • all’allargamento della democrazia diretta (primarie obbligatorie per legge, referendum d’ogni tipo senza obbligo del quorum, elezione diretta delle cariche pubbliche);
  • al federalismo fiscale come pratica della vicinanza al potere e autogoverno dei cittadini sul territorio;
  • alla governabilità e all’efficienza, non alla “rappresentanza”, che finisce per essere una fotografia del Paese frantumato in ideologie e interessi di parte.

C’è nella democrazia un’aura, un sistema di valori che include e supera il sistema elettorale e le stesse istituzioni. Essa colora di sé la vita pubblica, la aiuta a crescere liberandola dalle mitologie e dalla pratiche affaristiche; un insieme di azioni, atteggiamenti e comportamenti che precedono la fase dell’argomentazione e riflessione cosciente; uno “stato in interiorizzazione individuale del discorso pubblico”.
Dunque l’essenza di una vera riforma elettorale non consiste né nel rispecchiare l’esistente né in una stratta azione pedagogica sulle masse, ma in un’azione ideale di indirizzo, in un movimento verso una meta sempre irraggiungibile, in qualcosa che inveri il celebre motto del filosofo tedesco Eduard Bernstein: “il movimento è tutto, il fine è niente”.

Dario Fertilio

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Dario Fertilio
Dario Fertilio (1949) discende da una famiglia di origine dalmata e vive a Milano. Giornalista e scrittore, presiede l'associazione Libertates che afferma i valori della democrazia liberale e i diritti umani. Estraneo a ogni forma di consorteria intellettuale e di pensiero politicamente corretto, sperimenta diverse forme espressive alternando articoli su vari giornali, narrativa e saggistica. Tra i suoi libri più noti, la raccolta di racconti "La morte rossa", il saggio "Le notizie del diavolo" e il romanzo storico "L'ultima notte dei Fratelli Cervi", vincitore del Premio Acqui Storia 2013. Predilige i temi della ribellione al potere ingiusto, della libertà di amare e comunicare, e il rapporto con il sacro.

2 Commenti

  1. Molto indicativo ed efficace il legame tra riforme passate, ragioni alla loro base e conseguenze non volute delle stesse.
    Il fatto che in presenza di certe riforme si verifichino delle conseguenze “non volute”, a mio avviso, dimostra una “reticenza a cambiare” da parte del sistema istituzionale che pure vara quelle leggi di riforma.
    La propensione per un compromesso al ribasso, che garantisca un dividendo immediato alle forze politiche esistenti in quel dato momento, porta in dote un prezzo di “conseguenze non volute” di cui si fa carico il paese e chi lo dovrà amministrare in futuro.
    Se il compromesso fosse invece alto, vorrebbe dire che le forze che lo approvano sanno di compiere, per loro stesse, un salto buio, ma di dare al paese un sistema finalmente stabile, che funziona, privo dei difetti che inevitabilmente manifestano gli accordi al ribasso.

  2. Grazie per l’apprezzamento. Non posso che essere d’accordo. Ma il nostro compito è non arrendersi a quel che appare inevitabile.

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